Capitolo 272: La croce mi fa dolente e non mi val Deo pregare.

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Achille Tiberti organizzò le truppe in modo che setacciassero Castelnuovo palmo a palmo: "Senza attaccare nessuno, se non verrete attaccati!" andava ribadendo, man mano che instradava a destra o a sinistra una colonna di soldati.

Gli abitanti della città, colti nel mezzo di una giornata qualunque, non avevano avuto nessun moto di ribellione, nel vedersi piombare addosso tutti quegli uomini armati.

Bezzi aveva provato a suggerire di prendere d'attacco le mura, ma Cicognani aveva fatto notare che nemmeno erano state chiuse le porte e che le sentinelle sui camminamenti si erano limitate a fissarli mentre sfilavano sotto i loro occhi, dunque non avrebbe avuto senso danneggiare mura che poi sarebbero servite a loro stessi una volta presa la città.

Così Tiberti aveva preso in mano la situazione e aveva deciso di seguire pedissequamente il piano stilato dalla Contessa. Prima di tutto, quindi, andavano cercate le provviste alimentari. Dopodiché bisognava prendere possesso della rocca.

La fortezza era in mano a Nicolò Bonucci e Achille era certo che proprio in quel momento il castellano stesse già facendo i suoi conti. Se le informazioni su cui si era basata la Contessa erano corrette, a Castelnuovo potevano esserci al massimo poche decine di guardie e probabilmente nemmeno una bocca da fuoco decente. Che poteva fare Bonucci, contro lo schieramento compatto e ben armato or ora giunto da Forlì?

Appena i soldati tornarono dai comandanti dichiarando di aver trovato fossi interi colmi di grano nascosto e di aver già requisito tutto il bestiame presente in città, Tiberti ordinò che si marciasse fin sotto alla rocca.

Nicolò Bonucci, risvegliato di soprassalto nel mezzo di un pisolino – Castelnuovo si era fatta tanto tranquilla, dalla partenza dei francesi, che spesso il castellano restava nelle sue stanze fino al mezzogiorno – aveva infilato in fretta e furia i primi vestiti che gli erano capitati a tiro ed era corso sulle merlature.

Quando vide che le parole del suo attendente erano corrette e che la città era letteralmente invasa da soldati che portavano lo stemma degli Sforza Riario, si fece il segno della croce.

"Bonucci!" gridò Tiberti, facendo andare il proprio cavallo avanti e indietro proprio sotto ai camminamenti della rocca, non temendo nemmeno un colpo di freccia: "Bonucci! Dobbiamo parlare!"

Sistemandosi il colletto con una mano e i capelli con l'altra, il castellano si mise in mostra e urlò di rimando: "Che volete? Perché siete qui?"

"Lasciaci entrare a discutere e non attaccheremo la popolazione!" spiegò Tiberti, puntando gli occhi verso il castellano e poi indicando i soldati alle sue spalle: "Altrimenti, se preferisci, difenditi."

Bonucci si passò la lingua sulle labbra, lanciò uno sguardo atterrito alle sue spalle e vide l'unico malconcio cannone che era rimasto alla rocca dopo l'ultima requisizione di Guido Guerra, che aveva voluto tutti i pezzi d'artiglieria migliori a Cesena, e si vide costretto ad accettare: "Entrate e parliamone!"

Al che Tiberti fece cenno a Cicognani e Bezzi di smontare di sella come lui e i tre entrarono già con passo da vincitori nella rocca di Castelnuovo.


 Giovanni il Popolano appoggiò con delicatezza la mano sulla spalla di Semiramide, china sul capezzale del figlio, e poi lasciò un momento la stanza, dedicando uno sguardo alla serva e al medico, come a raccomandare a loro sua cognata.

Fermò uno dei servi che si affaccendava in silenzio fuori dalla porta e gli disse, a voce bassa, ma concitata: "Correte da mio fratello, al palazzo della Signoria. Ditegli che Averardo è peggiorato di colpo. Fate sì che venga subito qui."

Mentre il domestico si allontanava come una scheggia, Giovanni fece un paio di respiri profondi.

Suo nipote si era aggravato all'improvviso. Quello che sembrava un semplice malanno da bambini si era trasformato in una sorta di agonia nell'arco di mezza giornata.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)On viuen les histories. Descobreix ara