Capitolo 279: Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur

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Ottaviano Manfredi, i lunghi capelli al vento e l'elmo sotto al braccio, montava un immenso cavallo nero da guerra e al suo fianco stava Vincenzo Naldi, con indosso un'armatura adornata da scaglie d'oro.

Faenza era sempre più vicina e così l'esule, ancora non del tutto persuaso dalle promesse dei cugini Naldi, si decise a dare il via definitivo alla sua riconquista.

Si infilò l'elmo con un colpo secco, abbassò la pesante celata, e poi fece segno a quelli che lo seguivano – ovvero quasi tutti i valdilamonesi – e così questi cominciarono a intonare un unico motteggio cadenzato e ritmico, quasi simile al monotono e mortale rullare di una schiera di tamburi da guerra: "Ottaviano! Ottaviano! Ottaviano!"

Se i Naldi avevano fatto bene il loro lavoro, nel sentire quel grido, i partigiani del Manfredi esiliato si sarebbero sollevati all'istante contro Astorre e Castagnino, aprendo le porte della città al loro legittimo signore e imbracciando le armi per portarlo in trionfo fino al palazzo.

"Avanti!" ordinò Ottaviano Manfredi, alzando verso il cielo collerico la spada e spronando il suo destriero.

Avanzò con decisione, seguito da Vincenzo Naldi e da una manciata di altri uomini a cavallo. I fanti seguivano in corsa, il grido di guerra sempre ben distinguibile, per quanto ormai quasi coperto dal rumore di ferraglia in movimento.

La polvere spessa si sollevava dal terreno secco, mentre gli uomini di Ottaviano guadagnavano metri, e il vento freddo che spirava dalla città riduceva la loro visibilità.

La ridusse così tanto che nessuno si accorse dei soldati che li attendevano appena fuori dalle mura faentine.

"All'attacco!" risuonarono le urla di più uomini e solo allora Ottaviano Manfredi comprese di essere stato anticipato su tutta la linea.

Lanciati alla carica com'erano, i ribelli non riuscirono a frenare per tempo la corsa, mentre dalle porte di Faenza arrivavano tre colonne compatte a gran velocità, due davanti e una dietro, come riserva per un eventuale secondo slancio.

L'impatto fu terribile e violentissimo e per parecchi minuti fu impossibile capire chi stesse prevalendo.

Ottaviano, mentre si riprendeva da un colpo alla testa che gli aveva fatto saltar via la celata dell'elmo, in un lampo di lucidità, riconobbe gli stendardi portati da almeno due delle tre colonne.

Il primo era quello di Venezia, inconfondibile con il leone di San Marco che incombeva con cupezza portando tra le zampe le parole di Dio. L'altro era il trinciato dentato di oro e rosso dei Bentivoglio di Bologna. Il terzo simbolo era troppo distante, per il momento. Gli armigeri che lo seguivano restavano nelle retrovie, colpendo duro quei pochi valdilamonesi che riuscivano a sfondare le linee fino a loro.

"Dove diavolo sono i vostri dannati partigiani?!" ringhiò Manfredi quando, nella confusione della battaglia, il suo cavallo si trovò a sbattere contro quello di Vincenzo Naldi.

Questi, che aveva già perso lo scudo, voltò il viso verso la voce di Ottaviano, facendo molto fatica a vederlo, per via della strettissima celata abbassata, che gli permetteva a stento di scorgere un filo d'orizzonte, inficiato, tra l'altro, dalla polvere portata dal vento e sollevata dagli zoccoli dei cavalli e dai piedi pesanti dei soldati.

"Vi avevo detto di non scrivere a vostro cugino! Avete voluto fare di testa vostra! Ed ecco il risultato!" contrattaccò Naldi, tenendo lontano un bolognese con la spada lunga, ma attirandosi subito contro due veneziani: "Siete stato uno sciocco! Ci hanno scoperti!"

Ottaviano Manfredi lasciò Vincenzo al suo destino e, infilzando in un occhio un nemico che aveva cercato di squarciare il ventre del suo cavallo, si levò con rabbia l'elmo, gettandolo in terra, e diede un'occhiata critica al campo, mentre i suoi capelli impastati di sudore venivano scompigliati dal vento.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now