Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata

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Isabella sentì la porta aprirsi alle sue spalle e sussultò. Voltò appena la testa e fece giusto in tempo a vedere Ludovico Sforza, lo zio del suo defunto marito, dire in fretta qualcosa alla guardia e poi entrare nel salotto, chiudendo poi la porta con un suono sordo.

Milano era avvolta da una cortina di nebbia fitta e gelata, ma se non altro non nevicava più. Le stanze del palazzo di Porta Giovia erano scaldate in modo insufficiente, ma con qualche abito un po' spesso si poteva resistere bene.

Anche se il cancelliere Calco aveva insistito molto con il Moro per convincerlo ad accendere più camini e a rafforzare certe finestre, chiuse da pergamene ormai rovinate, Ludovico aveva fatto orecchie da mercante. Aveva invece continuato a spendere per i lavori nella chiesa in cui riposavano i resti di sua moglie Beatrice.

A corte si malignava molto su questa improvvisa riscoperta della religione da parte del signore di Milano e in certi borbottavano dicendo che presto la chiesa di Santa Maria delle Grazie sarebbe stata più accogliente del palazzo ducale.

"E a quel punto – aveva aggiunto qualcuno – converrà a tutti esser morti e farsi seppellire lì, piuttosto che restare qui a patire il freddo!"

Il Duca di Milano passò accanto alla vedova di Gian Galeazzo e la guardò solo di striscio. Aveva notato che le avevano fatto indossare abiti nuovi e che anche i suoi capelli erano stati sistemati come si doveva.

Da quando era arrivata da Pavia, il Moro l'aveva vista solo una volta, ancora incosciente e poi l'aveva lasciata alle cure di alcune di quelle che erano state le dame di compagnia di Beatrice, affinché la rimettessero in sesto e l'aiutassero a riprendersi.

Era passato qualche giorno e alla fine Ludovico aveva deciso di incontrarla.

Isabella, dopo il lungo isolamento patito, si sentiva ancora molto insicura. Cambiare ambiente in modo tanto repentino e vedersi improvvisamente di nuovo servita e abbastanza riverita era stato difficile da accettare.

Benché l'essere umano si abitui in fretta a ciò che è meglio, l'Aragona non riusciva a mettere a tacere la propria diffidenza per un simile trattamento, anche perché l'unica domanda che poneva con insistenza – ovvero avere notizie del figlio Francesco – era l'unica che non trovava mai risposta.

Anche in quel momento, mentre il Moro prendeva tempo, indeciso su cosa dirle, Isabella non smetteva di torcersi le mani l'una con l'altra e i suoi occhi continuavano a saettare a turno verso il Duca e poi verso gli angoli della stanza, come se si aspettasse di vedere qualcuno acquattato lì, pronto a farle del male.

Per andare all'incontro con il Moro, Isabella d'Aragona aveva dovuto lasciare le sue figlie alle dame di compagnia che l'avevano accolta al palazzo di Porta Giovia.

Non era tranquilla, benché fosse abbastanza sicura che quelle ragazze non fossero cattive. Le avevano detto di essere state le dame di compagnia di Beatrice, ma non per questo parevano ostili a lei o alla sua prole. Anzi, qualcuna si era anche lasciata scappare qualche commento tutt'altro che malinconico a riguardo della defunta Duchessa.

In ogni caso, dopo tanto tempo passato nella torre in compagnia delle sue due figlie e del suo adorato Francesco, trovarsi senza nessuno dei tre per l'Aragona era un trauma.

"Sapete già che Beatrice è morta, vero?" chiese Ludovico, con voce piatta.

Per la prima volta, Isabella sollevò apertamente lo sguardo su di lui e trovò il coraggio di osservarlo con accuratezza.

Il Duca non era più come lo ricordava. Era sempre un omone alto e largo, con il naso grosso e il ventre prominente, ma qualcosa nel suo volto si era spento e tutta la tracotanza che aveva sempre emanato pareva svanita nel nulla.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora