Capitolo 259: Dinanzi a me non fuor cose create...

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 Caterina aveva predisposto che il funerale di Giacomo fosse fissato il giorno seguente.

Il suo cancelliere le aveva fatto notare come sarebbe stato opportuno dare risalto a quella celebrazione e aveva anche, in accordo con la Contessa, inviato alcuni inviti ufficiali ai nobili delle terre vicine.

In più si era deciso di creare un monumento funebre temporaneo, che sarebbe stato esposto durante le esequie e la Contessa aveva già pensato alla creazione di una statua bronzea da far preparare il prima possibile.

Non solo sarebbe stata un ricordo degno della memoria di un re, ma avrebbe contribuito a mantenere viva, nella popolazione, la consapevolezza di quello che era stato fatto e delle pene che era state inflitte ai colpevoli. Si sarebbe trattato di un deterrente come un altro, che avrebbe unito la glorificazione dell'immagine di Giacomo, al ribadire il potere pressoché assoluto di colei che era stata sua moglie.

Cardella aveva sorpreso positivamente Caterina, ma la donna non aveva avuto abbastanza lucidità per lodarlo più di tanto.

Si stava per scivolare nel pomeriggio e gli arresti proseguivano senza sosta, come una processione di incatenati diretti alla rocca di Ravaldino.

"Mia signora – disse a un certo punto Cesare Feo, quando la Contessa, congedatasi da Cardella, si presentò ai piani bassi per controllare come stessero andando le cose – non c'è quasi più posto nelle celle."

Caterina allora aveva guardato il castellano, che si era quasi spaventato nel vederne gli occhi ottenebrati e distanti.

Qualunque cosa stesse tenendo in piedi la sua signora, attenuandone visibilmente le esternazioni classiche di dolore, di certo si trattava di qualcosa di diabolico, in grado di trasformare il cordoglio in sete di sangue.

"Cominciate a fare spazio, allora." disse Caterina, accigliandosi: "I figli degli Orsi sono ancora rinchiusi, non è così?"

Cesare Feo annuì appena, chiedendosi se fosse possibile che la Contessa volesse liberarli proprio in quel momento.

"Allora cominciate uccidendo loro. Hanno già passato fin troppo tempo a farsi mangiare dai ratti, non credete?" fece la donna, impassibile.

Il castellano chinò appena il capo, chiedendosi per quanto ancora sarebbe stato capace di obbedire a simili ordini, dati con tanta leggerezza: "Come desiderate, mia signora."

Caterina a quel punto fece una rapida ispezione delle carceri, che erano davvero sovraffollate.

Rivedere così tanti volti che aveva considerato amici e sentire le voci, che così spesso le avevano dato buoni consigli, implorarla di avere clemenza non fece altro che adirarla ancora di più.

Incolpava tutta quella di gente di essere ancora viva, quando invece il suo Giacomo era morto.

Si rendeva conto dell'assurdità della sua accusa, ma non riusciva a fare a meno di riversare su quella gente il suo dolore che si era effettivamente tramutato, prima che lei potesse evitarlo, in folle sete di sangue.

Riattraversando il cortile d'addestramento, mentre alcuni soldati si affrettavano a spostare delle munizioni, la Contessa si rese conto che il momento di andare da Giacomo era giunto e che per farlo avrebbe prima dovuto trovare il vestito da consegnare ai Battuti Neri.

Si aggirava come uno spettro, gli occhi verdi cerchiati di nero, le labbra tese, ridotte a una linea pallida, eppure tutti quanti i suoi uomini, non appena si imbattevano in lei, le dedicavano un mezzo inchino o un saluto colmo di rispetto e timore.

La dedizione delle forze armate aveva qualcosa di commovente, ma Caterina si sentiva a malapena sfiorata da quel caldo sentimento.

Per quanto la riguardava, era troppo poco, troppo tardi.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now