Capitolo 381: Virgo Intacta

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Niccolò Machiavelli si rimise a sedere subito. Aveva guardato distrattamente fuori dalla finestra del suo ufficio, o meglio, dalla stanzetta umida che lui chiamava orgogliosamente 'ufficio', ma poi aveva deciso di rimettersi a scrivere, prima che arrivasse il suo superiore.

Avrebbe potuto adempire a quel dovere privato standosene a casa, ma preferiva usare carta e inchiostro della Repubblica. In fondo, era un suo dipendente e come tale non veniva mai rispettato come si sarebbe dovuto.

Il vociare che lo aveva indotto a guardare fuori arrivava solo da un gruppo di Piagnoni che aveva preso a scudisciate una donna che, a detta loro, vagava per la strada in abiti troppo succinti.

Come potesse essere così, dato che si era in dicembre, Niccolò non lo capiva, ma la distrazione aveva perso immediatamente interesse, nel vedere che erano coinvolti i fanatici di Savonarola.

Con uno sbuffo, Machiavelli si passò una mano nel ciuffo di ricci ribelli che gli si erano di nuovo rizzati sulla testa e, cercando di ritrovare la calma, cominciò a scrivere.

Era una lettere di media lunghezza, o almeno così l'aveva pensata, destinata al Cardinale Juan Lòpez, affinché finalmente riconoscesse di nuovo il possesso della Pieve di Fagna alla famiglia Machiavelli.

Gli ultimi eredi dei Pazzi, che ricominciavano a gravitare attorno a Firenze, scampato il pericolo della furia non solo del Magnifico, ma anche del suo erede che era ancora esiliato, avevano cercato di allungare le mani, pretendendo quella Pieve per loro.

Niccolò aveva deciso di calcare la mano sul fatto che quella terra era stata dei suoi avi e che dunque nessuno meritava più di lui e dei suoi familiari di riottenerla.

Lòpez era notoriamente un tipo facile da convincere coi soldi, cosa per il giovane segretario impossibile. Poteva solo sperare di vincerlo con le parole. Almeno con quelle, sapeva di essere secondo a pochi.

Con la penna ancora a mezz'aria e sulla pagina la frase a metà – 'Non ci vogliate pel contrario di tanta ignominia segnare, con grandissimo nostro disnore, se la vostra clemenza non ci si interpone, conviene si perda...' – Niccolò sobbalzò di scatto quando il suo superiore, entrato senza far rumore nel loro bugigattolo chiamato ufficio, gli diede una sonora pacca sulla spalla esclamando: "Oh, Macchia! Sempre a lavorare!"

Machiavelli incassò senza lamentarsi, ma la chiazza di inchiostro lasciata sul foglio condannava quella lettera a essere solo la brutta copia di quella che avrebbe spedito al Cardinale.

L'occhio del superiore aveva sbirciato la pagina e, capendo subito che non si trattava di cose di Stato, diede un secondo scapaccione a Niccolò, molto più forte e severo: "Le tu' cose falle a casa!"

Quel gesto, gratuito e sgraziato, al ventottenne ricordò quello che molti anni addietro il suo precettore era solito fargli.

Chiuse un momento gli occhi, per placare la tempesta della sua anima. Suo padre aveva allontanato presto il suo maestro, quando aveva capito quello che gli faceva, ma non abbastanza.

Stringendo con forza i denti, quasi fino a farsi male, Machiavelli lentamente si alzò, prese il suo foglio irrimediabilmente macchiato, e, con un mezzo inchino, lasciò l'ufficio, incurante delle grida oltraggiate del suo superiore.

"Ce n'è tanti come me – ebbe solo la capacità di dire, appena prima di varcare la soglia – che passa l'ore d'ufficio in taverna. Ecco, oggi lo faccio anche io."


 Caterina era uscita prestissimo per andare nei boschi. Giovanni aveva provato dapprima a opporsi, molto debolmente, mettendo la scusa del brutto tempo davanti alla paura per il bambino che sua moglie portava in grembo, e poi, in un secondo momento, aveva tentato di offrirsi ad andare con lei.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora