Capitolo 395: Omnes eodem cogimur

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Isabella Este non parlava. Nemmeno sollevava lo sguardo dal suo scrittoio. Suo marito, che aveva fatto uscire con un gesto imperioso tutti i servi e le dame di compagnia presenti – come era stato solito fare, ma per motivi molto diversi, anni addietro non appena ritornava a casa dopo una lunga assenza – restava in silenzio, le mani sulla berretta e lo sguardo basso.

La donna, seduta composta, sollevava il profilo altero di quando in quando, ma solo per lanciare uno sguardo disinteressato fuori dalla finestra.

"Isabella..." sussurrò dopo un bel po' Francesco, il tono di un penitente.

"Non devi dire nulla." fece la Marchesa, piccata, sempre senza guardarlo: "Le tue azioni hanno già parlato per te."

"Sono stato da tuo padre e..." prese a dire l'uomo, cercando di cambiare discorso o almeno di non troncare subito quell'abbozzo di conversazione.

"Mio padre tornerà a considerarti suo genero quanto sarai in grado di avere un erede." lo bloccò subito l'Este: "E per quanto mi riguarda, ci vorrà parecchio tempo, prima che se ne presenti l'occasione. La sola idea mi dà ribrezzo. Se vuoi una donna, tornatene a Brescia. So che là non aveva problemi a cambiarne una per sera. Per quanto riguarda me, dimenticami. Ti proibisco di visitare la mia stanza. Questa notte e tutte quelle a venire, fino a che non sarò io a cambiare idea."

"Ma che..." fece il Marchese, il respiro rapido e il cuore a mille, vedendosi già spacciato.

Non era tanto l'idea di vedersi rifiutato dalla moglie, quanto quella di essere così apertamente disprezzato da lei.

"Sto lavorando a un accordo con Venezia. E anche con Milano." spiegò Isabella, sollevando finalmente gli occhi dal suo libro e cercando quelli del marito.

Il contatto tra loro durò pochi istanti. Le iridi dell'Este erano lucide, come se stesse per piangere.

"Vedi di non rovinare tutto anche questa volta." sussurrò lei, la voce incrinata: "E adesso lasciami sola. Non ho voglia di vederti."

Assorbendo a fatica il colpo, il Marchese deglutì a fatica. Aveva la gola secca e riarsa. Sempre stringendo la berretta tra le dita, adesso tremanti e sudate, camminò all'indietro fino a raggiungere la porta e se ne andò, come sua moglie voleva.


"Non mi ero accorto che fosse destinata a vostra moglie..." spiegò Luffo Numai, con una certa tensione nella voce, mentre porgeva una lettera già aperta a Giovanni: "Posso consegnarla a voi?"

Il Medici, che sapeva che Caterina era in città per visitare il quartiere militare e che probabilmente non sarebbe rientrata a Ravaldino se nel tardo pomeriggio, annuì: "Come se l'aveste consegnata a lei." assicurò, afferrandola.

Il Consigliere fece un mezzo inchino e poi uscì subito dallo studiolo del castellano.

"Sempre distratto, il caro Numai." sospirò Cesare Feo, guardando il fiorentino con fare insinuante.

Il Popolano sollevò un istante le spalle e, lasciando il castellano a continuare da solo il lavoro di revisione dei conti della città – compito che normalmente sarebbe spettato a un Governatore – uscì un istante dallo studiolo per leggere in santa pace.

Aveva intravisto nel volto scavato del Consigliere qualcosa che proprio non gli piaceva.

Si appoggiò a uno dei davanzali delle finestre che davano sul cortile interno e spiegò la lettera. Gli bastarono poche righe per capire, bene o male, che razza di uomo fosse lo scrivente.

'Vi prego signora mia, ancora un incontro – lesse verso la metà del messaggio – chè io da quella notte non ho più pace e cred'io che potrei servirvi meglio d'ogne altr'uomo'.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora