Capitolo 410: Naturae sequitur semina quisque suae

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"Allora?" chiese Caterina, chiudendo la porta alle sue spalle e mettendosi a guardare Giovanni.

Il fiorentino, rimasto del tutto silenzioso fin dalla partenza, si era fermato a pochi passi da lei e la stava fissando. Sembrava confuso, quasi spaventato e un simile atteggiamento, da parte sua, spaventava e confondeva anche la Contessa.

Prima che la donna avesse modo di ripetere la sua domanda, il Popolano si fece avanti e, tenendole il viso tra le mani, la baciò, facendole in fretta capire di volere di più.

In un primo momento, la Sforza non si oppose alle sue insistenze, ma poi si rese conto che quello che Giovanni stava facendo era solo una goffa imitazione di quello che da molto tempo faceva anche lei quando si sentiva persa.

"No, no, aspetta..." lo fermò, prendendolo per le spalle e facendolo indietreggiare: "Prima dobbiamo parlare. L'hai detto anche tu."

A quel punto, dando molto meno filo da torcere alla moglie di quanto non sapesse fare lei in situazioni simili a parti invertite, il Medici desistette all'istante e si mise a sedere sul piccolo letto che stava nel centro della Casina. Schiarendosi la voce, cercò le lettere che aveva nella tasca interna della giacchetta.

La Tigre, non sapendo che pensare del mutismo del marito e del suo tentativo di distrarsi, si sistemò velocemente i capelli che lui le aveva scompigliato, prese i messaggi e gli domandò, senza nemmeno guardare di chi fossero: "Quale devo leggere prima?"

Il fiorentino, che era rimasto molto accaldato dalla cavalcata per arrivare fino a lì, si perse per un momento nei suoi pensieri, prima di rispondere. Sapeva che da quello che la Sforza avrebbe deciso, una volta lette le missive, le decisioni che avessero preso l'avrebbero coinvolto tanto da vicino da rischiare di metterlo in serio pericolo di vita.

L'aria immobile della Casina, abbastanza fresca, malgrado il solleone di luglio che batteva sul tetto, gli stava facendo tornare in mente tutti i momenti importanti che aveva vissuto da che era a Forlì.

Non voleva andarsene, per nessun motivo.

Risentiva la voce di sua moglie, che gli chiedeva di sposarlo, la rivedeva mentre lo spogliava, la prima volta che si erano amati, avvertiva il calore della sua pelle quando avevano trascorso lì le ore solo per il piacere di stare insieme lontani dal mondo...

"Quella di Ottaviano." disse alla fine il Medici, rendendosi conto che la Tigre stava aspettando.

Caterina, per un battito di ciglia, restò sconcertata nel sapere che suo figlio aveva scritto a Giovanni.

Si era attesa che non scrivesse affatto lettere private dal fronte, che al massimo scrivesse a lei per riferirle gli affari bellici, o , più verosimilmente, al castellano o a Luffo Numai. O anche a uno dei fratelli. A Bianca, magari, visto che sembrava l'unica capace, a tratti, di sopportarlo.

Non aveva valutato nemmeno per un istante l'ipotesi che suo figlio potesse ritenere il Medici qualcuno di cui fidarsi tanto da averlo come corrispondente.

Restando in piedi, la Leonessa appoggiò al tavolone la lettera da leggere per seconda – che, intravide, era di Semiramide Appiani – e lesse quella si Ottaviano.

Il giovane raccontava, probabilmente con una vena di esagerazione, le insidie del viaggio che aveva fatto, abbandonandosi ogni tanto a magniloquenti descrizioni della sua capacità di sopportare tante difficoltà.

Tuttavia, sul finale della lettera, come se la recita si fosse esaurita, emergeva un Ottaviano molto diverso. Impaurito, pieno di debolezze, conscio della propria inadeguatezza e, soprattutto, della pessima figura che stava così facendo fare anche a sua madre.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now