Capitolo 399: Il Vescovo di Volterra

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Il quarantacinquenne Francesco Soderini, Vescovo di Volterra, stava sbuffando tra sé, mentre in lontananza le campane gli ricordavano che era passata un'altra ora.

Se non fosse stato per la delicatezza delle trattative e per l'importanza che quell'ambasciata avrebbe potuto avere per la sua carriera, il fiorentino prestato al Vaticano avrebbe volentieri lasciato subito Forlì per tornarsene a Roma.

La città gli era parsa scarna, viva, certo, ma più simile a un accampamento militare che non a un centro abitato normale. Si vedevano più soldati che commercianti e ovunque ci si girasse non si scorgevano che armi e gente in armatura.

Quando, poi, era stato condotto dal cancelliere della Sforza fino alla rocca di Ravaldino - quando invece lui era stato certo di venir accolto al palazzo dei Riario - Soderini era stato ancor più sul punto di sentirsi preso per i fondelli.

Poi l'avevano piazzato lì, in una stanza senz'altra mobilia se non un piccolo tavolo, un paio di sedie e un divanetto davanti al camino e gli avevano detto di mettersi il cuore in pace e aspettare.

"Trattare così un uomo del Santo Padre..." borbottò tra sé, andando fino alla piccola finestra che dava verso l'esterno: "Se non fosse per Giovanni..."

Guardando il sole che pian piano andava giù, il Vescovo si trovò a un punto di svolta. Era stanco. Il viaggio non era stato semplice come sperava e aveva anche dovuto fare delle variazioni sul percorso per evitare - almeno così aveva detto la sua guida - alcuni paesi colpiti da epidemie.

Si disse che nessuno l'avrebbe preso come un gesto troppo scortese se, visto che si avvicinava l'ora di cena, si fosse defilato di buonagrazia, andando a cercarsi una stanza per la notte e qualcosa da mettere sotto i denti. Si sarebbe ripresentato alla rocca di Ravaldino il giorno appresso, facendo finta di non essere minimamente infastidito da quel ritardo.

Era già a un passo dalla porta quando, con un movimento secco, questa si aprì. Nella camera entrò la Contessa Riario. Non poteva essere che lei. Il Vescovo la fissò per un lungo istante, mentre involontariamente, le sue narici catturavano un profumo indefinito di olii alle erbe.

La guardò meglio e si rese conto che la donna, vestita in modo semplice, seppure alcuni gioielli al collo e ai polsi lasciassero intendere una disponibilità economica maggiore rispetto a quel che si diceva in giro per l'Italia, aveva i capelli - lunghi e sciolti sulla schiena - un po' umidi.

"Vescovo. Vi aspettavamo solo domani." disse Caterina, porgendo la mano all'uomo, affinché gliela baciasse.

Questi, concentrato sulle iridi verdi della Tigre, non fece nemmeno mente locale, dimenticandosi del fatto che, essendo lui un alto prelato, sarebbe dovuta essere lei a baciargli l'anello pastorale e non il contrario.

"Perdonate l'attesa - disse Giovanni Medici, alle spalle della Contessa - speriamo non vi siate annoiato troppo."

Soderini cercò con lo sguardo il suo compatriota. Il Popolano gli stava sorridendo, ma, Francesco se ne rese conto all'istante, nel modo in cui sollevava le labbra c'era un che di freddo.

Anche se erano stati esiliati assieme, anni prima, per lo stesso motivo e dalla stessa persona, in quel frangente sembravano due sconosciuti che si intravedono su due sponde opposte di un fiume.

"No, no, non temete, anzi..." fece il Vescovo, stirando le labbra sottili e facendo un breve inchino ai due: "Almeno così ho avuto modo di riposarmi dal viaggio."

"Meglio così allora." tagliò corto la Sforza, chiudendo la porta e facendo cenno al messo papale di sistemarsi dove preferiva.

"Sono solo un po' curioso - sorrise mellifluo Soderini, prendendo posto su uno degli scranni dalla seduta imbottita e occhieggiando verso il lontano parente e la Contessa - mi piacerebbe sapere che genere di impegni tengono una donna come voi lontana dagli affari di Stato..."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now