Capitolo 260: ...se non etterne...

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Caterina arrivò allo studiolo del castellano e si fermò un istante dinnanzi alla porta chiusa.

La spaventava l'idea di ciò che l'attendeva oltre quel pezzo di legno. Rivedere Tommaso, con ogni probabilità, avrebbe solo reso tutto quanto più doloroso e reale.

Però era necessario incontrarlo. Doveva chiedergli spiegazione della sua mancanza con la moglie e i figli di Ghetti e voleva anche spiegargli meglio cosa fosse accaduto a Giacomo. Glielo doveva.

Dopo un'espirazione molto profonda, la Contessa abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.

Tommaso stava guardando fuori dalla finestra aperta, le mani dietro la schiena, la testa appena inclinata di lato.

Per una frazione di secondo, a Caterina quell'immagine parve tanto familiare da farle passare tutto il dolore in un colpo solo. Era come essere stata catapultata nel mezzo di una giornata qualsiasi del periodo in cui suo cognato era ancora castellano a Ravaldino, in attesa di parlamentare con lei per discutere gli ordini per il giorno successivo.

Quando il Governatore di Imola si voltò, però, il suo volto grigio e segnato ridiede alla Contessa l'assurdo senso di vertigine che l'aveva accompagnata fin dalla morte di suo marito.

Prima che uno dei due riuscisse ad aprire la bocca e dire qualcosa, entrambi si mossero in fretta l'uno verso l'altra e si strinsero con urgenza in un silenzioso abbraccio.

Si aggrapparono l'uno all'altra come due naufraghi in un mare in tempesta, cercando vicendevolmente un conforto che per primi sapevano di non poter offrire.

"Noi eravamo gli unici a volergli un po' di bene..." sussurrò Tommaso, appena prima che Caterina si allontanasse dalle sue braccia.

Seguì un interminabile minuto di mutismo, durante il quale il Governatore fissò la Contessa, incerto se fosse il caso o meno di fare domande su quanto accaduto, mentre ella si sforzava di dar voce ai suoi pensieri senza scoppiare a piangere come le era capitato poco prima in chiesa.

Schiarendosi rumorosamente la voce, alla fine Caterina riuscì a chiedere: "Come mai non avete ucciso subito la moglie di Ghetti e i suoi figli, come vi avevo ordinato?"

Tommaso, irrigidito dalla piega con cui era iniziato il discorso, rispose: "Rosaria Ghetti dice di avere dei nomi. Volevo che voi la interrogaste."

Caterina sbuffò: "Di nomi ne ho già anche troppi. Se dessi retta a quel maledetto prete e alla mia cameriera dovrei far uccidere mezza Forlì."

Il Governatore strinse il morso e i pugni lungo i fianchi e commentò: "E perché mai non dovreste farlo? Qualcuno ve lo può impedire?"

La Contessa sollevò un sopracciglio: "No, non me lo impedirebbe nessuno."

"Com'è successo?" chiese Tommaso, non riuscendo più a trattenersi.

Caterina comprese bene cosa volesse sapere il cognato, perciò tentò di raccontare quelle ore di delirio nel modo più coerente possibile, ma si dovette fermare più di una volta per mantenere la calma apparente di cui si era ammantata per riuscire a parlare.

Il Governatore ascoltò tutto in silenzio e poi chiese ragione anche delle confessioni di cui la sua signora aveva parlato poco prima.

La donna riprese per sommi capi quello che era riuscita a estorcere a Don Domenico e glissò abbastanza sul suo scambio di battute con la moglie di Bernardino Ghetti, dicendo semplicemente che la serva aveva riconfermato tutti i sospetti che già si avevano.

Nella sua dissertazione, Caterina non si rese conto di quanto gli occhi iniettati di sangue di suo cognato si fossero spalancati nel sentire il nome di Ottaviano quale mandante principale e apparentemente certo dell'omicidio.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now