Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.

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 Ottaviano aveva un fortissimo mal di schiena e un cerchio alla testa che gli impediva quasi di pensare.

Non era mai stato così lontano da sua madre e ogni volta in cui ci pensava, la sola idea lo atterriva.

A volte lui stesso trovava assurdi i suoi sentimenti. Quando l'aveva vicina, ne era terrorizzato e rimaneva scottato ogni qual volta ne cercava l'approvazione senza trovarla. Quando l'aveva lontana, si sentiva sperduto e piccolo come un pulcino implume in mezzo a una grandinata battente.

Fuori dal suo ambiente, non riusciva nemmeno a mascherare la paura con l'aggressività.

Le porte di Firenze erano ormai vicine e l'avanguardia del suo drappello era già entrata in città per annunciarli e avere il permesso ufficiale di entrare.

Quel 28 giugno l'aria era rovente e afosa. Ci avevano messo molto più del previsto, a fare la strada, e in parte era stata proprio colpa di Ottaviano che, in modo infantile e non del tutto volontario, aveva lasciato che la sua inquietudine si tramutasse in mali del corpo, rallentando così la traversata delle montagne e quasi convincendo – più o meno a metà percorso – gli attendenti a tornare a Forlì.

Alla fine, però, più temendo l'eventuale reazione violenta della Tigre nel non vedere eseguiti i suoi ordini, che altro, gli uomini della Sforza avevano finto di non sentire le lamentele del giovane Riario e l'avevano condotto quasi a forza fino a lì.

Mentre Firenze apriva i suoi portoni al piccolo corteo arrivato da Forlì, Ottaviano sentì la propria mente chiudersi ed estraniarsi. Sentiva il peso dell'armatura sul suo corpo, il calore che gli imperlava la fronte e infradiciava la schiena, i muscoli tesi del cavallo sotto di lui che, dopo ore di cammino, sembrava desiderare solo la quiete e non quel bagno di folla. Eppure, mentre i membri della Signoria lo scortavano fino nel cuore della città e la folla accorsa lo salutava come fosse stato davvero una persona importante, il giovane Riario avvertiva un senso di estraneità che gli faceva quasi provare le vertigini.

Lo accompagnarono nella chiesa di San Giovanni Battista, senza che nemmeno Ottaviano avesse il modo e la capacità di collegare almeno un nome a un volto. Faceva quello che gli veniva detto di fare e salutava quelli che gli venivano presentati, ma non ci stava capendo assolutamente nulla.

Firenze era una città grande, caotica, molto diversa da Forlì e il Riario si sentiva sperso. Era troppo piccolo, quando aveva lasciato Roma, per averne un ricordo chiaro da poter confrontare con Firenze, ma era certo che l'Urbe dovesse essere più simile a quella città che non a casa sua.

Finite le benedizioni in chiesa, uno dei rappresentanti della Repubblica – Ottaviano, che pure l'aveva salutato pochi minuti prima – non avrebbe saputo dirne il nome, gli chiese di fare la rassegna delle truppe che portava con sé.

Siccome il figlio della Tigre aveva imparato a dovere almeno a fare quello, dopo la prima rassegna, che sollevò grida di approvazione tra i fiorentini accorsi e i complimenti della Signoria, gli venne chiesto di ripeterla.

I soldati, agghindati a dovere secondo i consigli dati da Giovanni prima della loro partenza, diedero una mostra di sé tale da lasciare senza fiato gli spettatori che, a rassegna ultimata, batterono le mani fino a farsele dolere.

Quel diffuso – e forse sincero – entusiasmo, diede a Ottaviano quel briciolo di sicurezza che gli permise, a cerimonie concluse, di chiedere chi tra i presenti fosse Lorenzo Medici.

Aveva cercato, tra i membri della Signoria, qualcuno che assomigliasse a Giovanni, ma non aveva notato nessuna spiccata similitudine. Tanto che, sapendo che quella sera sarebbe stato ospite a palazzo Medici, aveva quasi paura che il fratello del suo patrigno avesse cambiato idea, arrivando perfino a disertare l'incombenza di accoglierlo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now