Capitolo 277: Relata refero

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Vincenzo Naldi e Nicolò Rondanini condussero i loro quattrocento fanti davanti alla rocca di Ravaldino, facendoli sfilare come in parata davanti allo sguardo severo della Contessa Sforza Riario, che per l'occasione si era messa sulle merlature, in modo da passare in rassegna le truppe appena giunte da Faenza e già dirette a Cusercoli in sostegno ai suoi.

I due comandanti mandati da Astorre Manfredi – o meglio, da Niccolò Castagnino – avevano fatto sì che i loro soldati indossassero armature lucenti e portassero in vista armi ben lucidate e affilate.

Quella era un'azione di sostegno, ma il tutore del signore di Faenza aveva tenuto a precisare coi suoi comandanti che quella doveva essere anche uno sfoggio di forza.

La Tigre aveva voluto il loro aiuto, e loro, in riguardo a tutto quello che la donna aveva osato ricordare per lettera, erano stati pronti a fornirlo. Tuttavia, era buona cosa che lei si imprimesse bene in testa che Faenza, per quanto dai confini ormai ristretti, rimaneva un bacino di soldati scelti da non trascurare.

Caterina guardò con attenzione i quattrocento fanti, che riverberavano con una leggera opalescenza sotto la luce irreale filtrata dalle spesse nubi di quel finale di novembre.

Non le sfuggì lo sguardo quasi di sfida che uno dei due comandanti le aveva lanciato, nel passare proprio sotto la porta della rocca. Se le sue spie le avevano fatto un buon quadro dell'esercito faentino e dei suoi caporioni, quello, dato il suo atteggiamento arrogante e la sua postura tronfia, non poteva che essere Vincenzo Naldi.

La Contessa attese con pazienza che finisse il siparietto e restò immobile tra le merlature anche quando sfilarono sotto di lei i carretti che portavano le vettovaglie.

Non era stato troppo semplice convincere il Consiglio degli Anziani di stanziare altre risorse per l'esercito – soprattutto in virtù del fatto che tutti si erano attesi un contributo in termini di cibo anche da Faenza, restandone delusi – ma quando Caterina aveva calcato la mano sul fatto che i soldati di Forlì erano i figli, i padri, i fratelli, i mariti e i nipoti di chi era rimasto in città, tutti si erano ammorbiditi e avevano votato a favore.

Sapendo di dover rispondere il prima possibile a Guglielmo Altodesco, che le aveva scritto un papiro infinito sulle difficoltà riscontrate nel trattare con Pandolfo Malatesta, la Contessa lasciò i camminamenti appena l'ultimo carretto cigolante sparì dalla sua vista, imboccando la strada per Cusercoli, e fece per andare nello studiolo del castellano.

Mentre attraversava il primo cortiletto, però, la sua attenzione venne catturata da una voce sottile e infantile che stava imparando a conoscere.

Si trattava di Bernardino. Era alle calcagna di uno dei soldati e portava tra le piccole braccia un paio di elmi, forse fin troppo pesanti per i suoi cinque anni compiuti da poco.

"Vedi che se fai quello che dico – stava dicendo l'uomo, precedendolo, ma voltandosi di continuo per controllare che gli stesse dietro – ti irrobustirai e diventerai un grande cavaliere."

Il piccolo, i cui capelli erano stati sistemati alla maniera degli scudieri, sorrideva e, arrancando un po', faceva eco: "Sì, sarò un grande cavaliere! Come mio padre!"

"Oh, buongiorno, mia signora." fece il soldato, quando si accorse di Caterina.

Anche il bambino sollevò gli occhi verso di lei e per poco non fece scivolare uno degli elmi, ma poi riuscì a ritrovare l'equilibrio e salutò: "Buongiorno, madre."

La Tigre fece un mezzo sorriso un po' stentato, scrutando nello sguardo del figlio l'incosciente entusiasmo della sua età. Era stata una buona idea, fargli cominciare subito l'addestramento. Le sue giornate erano troppo piene per permettergli di pensare troppo alla morte del padre, o alla perdita della famiglia che l'aveva cresciuto in seno fino a pochi mesi prima.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now