Capitolo 438: Il bere vino puro placa la fame

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Dalla partenza di entrambi i Sanseverino, Caterina stava cominciando a ragionare su cosa la loro presenza significasse realmente.

Quando li aveva saputi in arrivo, in fondo, ne era stata molto sollevata, perché l'idea di avere finalmente dei comandanti capaci, spesati, per altro, da suo zio e non da lei, la metteva di nuovo nella posizione di poter contare qualcosa, sul piano militare. L'avere sotto il proprio comando degli uomini del genere, portanti lo stemma del Moro, le permetteva di avere un peso diverso, in quella guerra.

Tuttavia, adesso che li aveva portati entrambi a Marradi, non restandole da fare altro che aspettare notizie dal fronte, aveva colto un po' di più l'ingerenza che suo zio stava cercando di fare e anche le proposte scomode di Giovan Francesco Sanseverino iniziavano a sembrarle meno azzardate di quanto non avesse creduto all'inizio.

Era una mattina di pioggia, come sempre, su quel finale di settembre e la donna aveva appena finito di sbrigare le questue a palazzo – in quei giorni si trattava quasi esclusivamente di furti di cibo, per via della carenza che cominciava a farsi sentire davvero – quando Luffo Numai era andato a cercarla alla rocca.

L'aveva trovata nella camera del figlio più piccolo, assieme a Giovannino e a Bianca, e nel trovarla immersa in una scena tanto familiare, si era quasi vergognato a doverla interrompere. In fondo erano molto pochi i momenti in cui la Tigre sembrava davvero una madre e una donna, almeno ai suoi occhi, e costringerla a rimettere il figlio più piccolo nella culla per seguirlo era un po' una sofferenza, per lui.

Tuttavia anche la questione che l'aveva portato fino lì si poteva definire di famiglia e così, al dunque, non si fece troppi problemi.

"Arrivo." soffiò la Contessa, sistemando il piccolo che, nel vederla allontanarsi, cominciò a piangere e smise solo quando la sorella lo prese in braccio.

Luffo Numai la fece uscire in corridoio e poi, con voce bassa, le disse: "Una delle guardie cittadine ha fermato vostro figlio Bernardino, assieme ad altri ragazzini, perché era nata una rissa e alcuni di loro erano armati e così temeva che..."

Caterina strinse le labbra, ma il Consigliere non capiva se fosse più infastidita o preoccupata, così le disse subito che suo figlio non aveva avuto alcun danno e che la guardia, per fortuna, era intervenuta abbastanza in fretta da evitare il peggio.

"Dov'è adesso mio figlio?" chiese la donna, dopo un po', alzando una mano per zittire Numai.

L'uomo la portò fino allo studiolo del castellano, dove avevano condotto Bernardino per sottrarlo al pubblico giudizio, evitandogli di essere accompagnato dalle guardie fin davanti all'Auditore.

"Lasciateci soli." sussurrò Caterina, tanto a Cesare Feo, che si era improvvisato sorvegliante del bambino, quanto a Luffo, che si ritirò all'istante.

Appena la porta fu chiusa alle sue spalle, la Sforza fissò Bernardino. Era in piedi in mezzo alla stanza, il capo chino, le guance arrossate – difficile dire se per la rabbia o per la vergogna – e i capelli e gli abiti ancora bagnati di pioggia.

"Perché fai così?" chiese la Tigre, restando al suo posto, incapace di fare un passo in più verso di lui.

Il bambino, che avrebbe compiuto abbastanza a breve otto anni, rimase in silenzio, continuando a fissare il pavimento. Nel guardarne il profilo del viso, in quel momento, Caterina non rivide più solo Giacomo – benché fosse indubbiamente presente in ogni sfumatura dei suoi lineamenti – ma anche se stessa. Riconosceva quella rabbia, e le faceva paura.

Sapeva che non doveva perderlo. Se avesse mancato l'occasione di riavvicinarlo a sè, si sarebbe guastato, com'era successo a Ottaviano e a Cesare prima di lui. E lei aveva promesso a Giovanni che si sarebbe presa cura di Bernardino, anche a costo di soffrire pur di riuscirci.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Όπου ζουν οι ιστορίες. Ανακάλυψε τώρα