Capitolo 307: Non mortem timemus, sed cogitationem mortis

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Ludovico si fece passare le due lettere dalle mani secche dello scrivano che aveva profumatamente pagato per creare quei due falsi.

La grafia di Savonarola era stata copiata da una vecchia missiva che era arrivata anni prima a Milano e il Moro sperava che nessuno di permettesse di mettere in dubbio l'autenticità di quei due nuovi messaggi che aveva lui stesso ideato, di comune intesa con sua moglie Beatrice.

Il Duca lesse con molta attenzione la prima lettera, indirizzata pomposamente a re Carlo VIII.

Con un certo gusto per le frasi a effetto – così come sarebbe stato se l'autore fosse stato davvero il domenicano – i paragrafi si inseguivano, chiedendo con sempre maggior veemenza il ritorno del francese in Italia.

Con un cenno di assenso, Ludovico appoggiò il foglio alla scrivania e passò alla seconda lettera.

In questo caso il destinatario era un tal Niccolò, nome scelto del tutto a caso, sperando che tra gli amici del frate ne figurasse almeno uno, e il contenuto andava a mettere suddetto ipotetico sostenitore di Savonarola in guardia contro l'Arcivescovo di Aix.

Si sosteneva che costui, ambasciatore francese a Firenze, altro non fosse che uno spergiuro e un traditore, pronto a lavorare alle spalle di re Carlo e a propugnare la disfatta della repubblica fiorentina.

Quei messaggi falsi, soprattutto a dire di Beatrice, sarebbero bastati a dimostrare a tutti la malafede di Savonarola e la sua indole da guerrafondaio. Mentre il papa, ufficialmente, invocava la pace sulla penisola, uno dei suoi, un ministro di Dio, chiedeva una nuova guerra e si occupava più di politica che non di fede.

Era sufficiente per far scoppiare uno scandalo grosso quanto lo Stato vaticano.

Lo scrivano osservò il Moro, mentre questi terminava la lettura con gli occhi iniettati di sangue per via della lunga notte insonne passata a discutere ancora con Lucrezia, e poi chiese: "Dunque, mio signore? Sono di vostro gradimento?"

Il Duca sporse in fuori le labbra e il suo doppio mento tremolò nel dire: "Sì, possono andare." poi lanciò uno sguardo penetrante al falsario e sottolineò: "Siete stato ben pagato. Se una sola parola esce da questo palazzo, vi faccio strappare la lingua e tagliare le mani."

L'uomo, a quella minaccia, si prese d'istinto una mano nell'altra.

Era abbastanza vecchio da ricordare molto bene quando il fratello del Moro, il folle Duca Galeazzo Maria Sforza, aveva fatto tagliare le mani a Tonio Vismara, primo console all'Università degli Armorari.

Anche se poi Vismara aveva avuto la sua vendetta, facendo uccidere il Duca, come tutta Milano aveva poi scoperto, aveva comunque dovuto vivere come uno storpio e un reietto fino alla fine dei suoi giorni.

"Io non dirò mai nulla." confermò lo scribacchino, raccogliendo in fretta le sue cose dalla scrivania e proponendosi in un inchino servile.

Ludovico già non lo stava più ad ascoltare. Lasciò che si profondesse in saluti pomposi e dichiarazioni di fedeltà, e poi si diresse verso lo studio del suo cancelliere.

Il piano era a metà del suo corso. Quelle lettere avrebbero destabilizzato l'alleanza franco-fiorentina e, denunciandone la scoperta al papa e alle altri corti, Milano avrebbe messo in cattiva luce Savonarola, forse abbastanza da metterne a rischio il governo.

Così, nell'aria cupa e immobile di quel 23 agosto, il Duca andò da Bartolomeo Calco e, porgendogli le due missive, annunciò: "Chiudetele e poi riapritele. Dopodiché fate partire la denuncia."


 Dopo il primo, fallimentare, tentativo di imporre alla Contessa Sforza un accordo, Simone Ridolfi aveva evitato la rocca di Ravaldino, ben pensando che, prima di muoversi di nuovo, fosse necessario informarsi meglio sulla donna che aveva nel suo mirino.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now