Capitolo 296:L'anima è immortale, e non possesso tuo bensì della provvidenza...

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Giovanni aveva lasciato Rimini di primissima mattina, dopo aver salutato Guglielmo Altodesco, ambasciatore forlivese, che aveva chiesto di poterlo vedere prima della sua partenza.

Il Popolano era riuscito a evitare perfino Pandolfo, che, a quanto aveva capito, era ancora intento a gozzovigliare nei suoi appartamenti, ma non era riuscito a sfuggire all'uomo della Leonessa.

Il forlivese lo aveva braccato fino a indurlo a fermarsi e poi lo aveva squadrato con occhio critico e dopo qualche breve frase di rito lo aveva lasciato ripartire.

Una volta tornato nelle sue stanze, Altodesco aveva preso il necessario per scrivere e aveva vergato un messaggio per la sua signora, che aveva chiesto notizie del Medici.

'Non par godere di buona salute, a mio avviso – erano state le prime parole che gli erano venute in mente – ha viso tirato, occhi distanti e risponde con vaghezza estrema alle domande, come se qualche malessere particolare lo stesse portando con la mente lontano dal discorso presente. Sì io lo reputo non in grande salute, ma forse la corte di Pandolfo Malatesta è in grado di mettere a dura prova anche gli uomini giovani come il fiorentino. Gli ho detto che gradireste sapere la data del suo ritorno, per fargli trovare un alloggio adeguato e ha riferito che non mancherà.'

Finita la lettera con le ultime novità sui maneggi del Pandolfaccio, riferiti non senza un vago gusto per il pettegolezzo da comare, Guglielmo aveva chiuso con le solite dichiarazioni di imperitura fedeltà e devozione per la Tigre di Forlì.


 Appena fuori dal confine riminese, Giovanni smise di fingere di stare bene. Aveva dovuto indossare la maschera della cortesia e della finzione per non sollevare troppe domande in Guglielmo Altodesco, ma si era comunque accorto del suo sguardo indagatore e sospettoso.

Adesso che era rimasto solo con la sua scorta, però, il Popolano non se la sentiva più di fingersi forte più di quanto non fosse.

L'idea di cavalcare fino a Cesena e, una volta lì, di affrontare un difficile scenario politico e diplomatico era semplicemente inconcepibile, nello stato in cui si trovava. Aveva fatto lo sforzo sufficiente a sottrarsi dalla pericolosa corte del Malatesta, ma non poteva fare più di quello.

"Fermiamoci alla prima locanda..." disse, rivolgendosi al capo delle sue guardie personali.

Il soldato annuì, senza fare domande, e passò l'ordine a tutti gli altri membri della scorta.

Dopo un'oretta abbondante di strada, proprio quando ormai il fiorentino era al limite della sopportazione, trovarono lungo la via una locanda un po' dimessa, ma sufficiente per i bisogni di Giovanni.

"Andate a chiedere se hanno delle stanze. Pagherò qualsiasi cifra." fece il Popolano, stringendo i denti, desiderando più di ogni altra cosa smontare da cavallo e coricarsi.

Quando il soldato tornò con una risposta affermativa, Giovanni non attese oltre. Lasciò la sua bestia agli armigeri, dando loro la giornata libera e poi, zoppicando molto vistosamente, andò dall'oste, versò subito qualche fiorino per la stanza per sé e per le guardie per un giorno intero, promettendo che avrebbe pagato man mano che il soggiorno si fosse protratto, poi si fece accompagnare in camera.

Appena fu nell'angusta stanzetta con un materasso imbottito di paglia come letto, ringraziò il locandiere e lo congedò.

Si coricò e si tolse con cautela le spesse brache di cuoio che aveva scelto per il viaggio.

Entrambe le ginocchia erano rosse e gonfie e così le caviglie e pure le articolazioni del piede. Il dolore era incoercibile e Giovanni non ebbe nemmeno la forza di richiamare l'oste per farsi dare del vino da bere fino a cadere stordito.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now