Capitolo332:Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille

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 Quando ancora la rocca di Ravaldino era immersa nel clima mite e silenzioso della notte, Giovanni si era alzato e aveva cominciato a prepararsi. Aveva dormito poco ed era stato agitato fin da quando si era coricato. La cosa che più lo teneva sulle spine era il non essere stato capace di comprendere che cosa Caterina volesse davvero quel giorno.

Quando era quasi pronto, controllo dalla finestra se stesse nevicando o meno e poi, una volta appurato che qualche fiocco in effetti stava già scendendo, decise di mettersi il giubbone e le brache più pesanti che aveva portato con sé da Firenze.

Quando pensò che l'ora fosse quella giusta, si guardò nel piccolo specchio che era riuscito a farsi procurare dalla figlia della Contessa in cambio di un piccolo libro, e si sistemò i riccioli castani, osservandosi sotto la luce malferma delle candele.

Sentendosi finalmente pronto, infilò anche il mantello invernale e poi andò in corridoio e si mise ad attendere che la Tigre uscisse dalla sua camera. Non dovette aspettare molto.

"Siete puntuale come sempre." sorrise Caterina, parlando a voce bassa.

Anche lei aveva preferito coprirsi bene, in vista della giornata tra la neve. Oltre a una cappa molto spessa, aveva indossato uno dei pochi vestiti a più strati che aveva. Con gli stivali da caccia e i guanti da infilare a cavallo, sentiva che sarebbe stata ben protetta anche da una tormenta.

Senza dire altro, la donna invitò il fiorentino a seguirla e, come avevano fatto l'ultima e unica volta in cui erano usciti a caccia insieme, andarono nella sala delle armi per prendere il necessario per la battuta.

Passarono poi anche dalle cucine, dove la Contessa mise insieme qualcosa per il pranzo, in particolare un fiasco di vino e del pane, che avrebbe assicurato alla sella del cavallo assieme alle armi. Aveva optato per un fiaschetto abbastanza piccolo, per impedirsi di eccedere, nel caso le fosse venuta la tentazione. Quel giorno voleva restare lucida e presente a se stessa. Qualsiasi scelta avesse fatto, voleva che fosse una scelta cosciente.

Non incontrarono nessuno, a parte un garzone nelle stalle che li salutò appena, troppo assonnato per fare discorsi. Entrambi parevano molto più taciturni del solito. Al massimo si scambiavano qualche sguardo di quando in quando mentre sistemavano i finimenti e se capitava che i loro occhi si incontrassero, sorridevano appena e poi ritornavano rapidamente a quello che dovevano fare, come nulla fosse.

Una volta in sella, Caterina puntò il suo stallone nero come la pece verso l'uscita della rocca e disse: "Se siete d'accordo, vorrei portarvi nella riserva della rocca. Non l'ho ancora visitata come si deve e mi piacerebbe vedere che selvaggina vi si trova."

Giovanni, dando di speroni al suo placido baio, annuì e confermò: "Ottima idea."

Quando lasciarono Ravaldino, la prima pallida luce del sole filtrava incerta tra le nuvole bianche e ancora molto spesse. Non nevicava, in quel momento, ma il Medici sarebbe stato pronto a giurare che prima di sera avrebbe ripreso.

Cavalcarono per parecchio, le zampe dei cavalli che affondavano nella neve ancora tenera, mentre il giorno cominciava ad avanzare. Qualche punto ghiacciato rallentava un po' la loro andatura, ma la Contessa non ne parve infastidita. Più volte si fermava ad aspettare Giovanni, il cui baio, più goffo e meno avvezzo a certi terreni rispetto al suo purosangue, a volte aveva delle incertezze che lo rendevano un po' macilento.

Per tutta mattina i due perlustrarono la tenuta. Non c'erano grossi animali, nei dintorni e perfino gli uccelli si erano nascosti chissà dove per far fronte al gelo. Finalmente, intorno a mezzogiorno, Caterina riuscì a prendere un paio di conigli dalla pelliccia bianca quasi quanto la neve con cui avrebbero voluto mimetizzarsi per scampare alla morte.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now