Capitolo 270: Nisi caste, saltem caute.

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Potevano dire quello che volevano, ma la realtà non sarebbe cambiata. Francesco Gonzaga era stufo di quella guerra e non intendeva prestare ulteriormente il fianco ai giochetti insulsi del Duca di Milano e del re di Francia.

Stava cavalcando pancia a terra verso Mantova, assieme alla sua scorta personale e a pochi altri soldati che lo avevano seguito, e non si pentiva nemmeno un po' di aver abbandonato la causa tanto repentinamente.

Il Duca di Milano e il re di Francia avevano siglato una pace che lui stesso aveva caldeggiato, facendo pressioni su Ludovico Sforza, mettendolo davanti alla prospettiva di una spesa insostenibile, per continuare l'assedio di Novara.

Era stata una mossa obbligata, quasi, dettata dal suo desiderio di deporre le armi almeno per un po', o, se non altro, almeno fino a quando non ci fosse stata in vista una possibilità più concreta di strappare una vittoria soddisfacente.

E così la città di Novara era stata letteralmente comprata dal Moro, che aveva comunque sborsato una cifra nettamente inferiore a quella che avrebbe dovuto trovare per finanziare ancora per mesi quell'insensata manovra.

Un assedio che terminava con una transazione monetaria faceva ribrezzo al Marchese, ma Francesco non aveva intenzione di perdere la faccia e la vita – perché così sarebbe di certo andata a finire, se si fosse ostinato a perpetrare quell'attacco – in un modo tanto insulso, dunque aveva preso di buon grado quella decisione.

All'inizio era stato ben deciso a riscattarsi dalla figuraccia di Fornovo con la conquista di Novara, ma poi il suo lato pragmatico si era fatto strada tra l'orgoglio e l'ostinazione e lo aveva fatto rinsavire, mostrandogli l'insensatezza della sua cocciutaggine.

E così aveva piegato il capo alla pace, alla vittoria tramite denaro e ai fasulli onori che gli erano stati tributati per aver riportato Novara al suo legittimo proprietario.

Anzi, si era dimostrato molto accomodante anche con tutti i francesi che gli avevano fatto visita al campo, dopo la pace di Vercelli, aveva accettato lo scambio di doni di buonagrazia e si era fatto vedere lieto anche davanti a personaggi odiosi come Luigi d'Orléans.

Quando i francesi gli avevano fatto capire che lo avrebbero voluto a Napoli, a combattere contro gli Aragona, Francesco aveva subito rifiutato in modo fermo. Quando avevano insistito, proponendo una condotta di tutto rispetto e avanzando velate minacce, il Gonzaga aveva calato l'asso.

Si era inventato che sua sorella Chiara, moglie del Montpensier, era malata e che quindi la sua presenza era richiesta con urgenza al suo capezzale, a Mantova. In più, non sapendo che tipo di malattia affliggesse la sua adorata congiunta, non era in grado di dire quanto tempo sarebbe dovuto restare nella sua città, dunque non sarebbe stato un buon affare, per i francesi, ingaggiarlo.

Luigi d'Orléans aveva fatto una faccia strana, ma alla fine, che ci credesse o meno, aveva congedato il Marchese con i suoi più sentiti auguri di pronta guarigione per la sorella Chiara.

Quando Francesco finalmente vide il profilo elegante di Mantova, sentì il cuore riaprirsi nel petto e un sospiro di sollievo gli riempì i polmoni.

Attraversò la città seguito dallo sguardo incuriosito e festante dei suoi sudditi, che, come capitava ogni volta che il Marchese rientrava dopo una guerra, erano accorsi ad accoglierlo, felici di vederlo ancora vivo e in salute.

Fuori dal palazzo, sotto il cielo che si scuriva di nuvole foriere di pioggia, circondata da guardie e da dame di compagnia, l'attendeva Isabella Este, sua moglie.

La donna aveva deciso di fiondarsi fuori dal portone non appena una delle guardie cittadine era accorsa per dire che il Marchese era tornato e così la Marchesa poté godersi lo sguardo euforico che illuminò il viso del marito non appena la vide.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now