Capitolo 365: Ego te intus et in cute novi.

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Ludovico sollevò il sopracciglio e poi guardò di traverso Calco e il nipote Ermes, cercando in loro una reazione ilare che avrebbe scusato anche la sua risata.

Siccome tanto il cancelliere quanto il diplomatico erano rimasti seri come statue, il Moro sbuffò e si rivolse di nuovo al messaggero che gli stava davanti, per chiedere: "Che cosa intendete, di preciso?"

L'uomo abbassò lo sguardo e rilesse le parole dell'oratore, così come erano state scritte, troppo imbarazzato per poter aggiungere considerazioni personali: "La Contessa e messer Medici di Firenze si danno grandi piacevolezze in ogni ambito della rocca loro, non dandosi cura alcuna che alcuno li veda o senta o per giunta interrompa."

Non c'era nulla da fare, al Duca di Milano scappava da ridere e quella volta non riuscì più a trattenersi.

Mentre la risata fragorosa del loro signore ancora riempiva l'aria, Ermes e Calco assumevano un'espressione vaga e lo stesso faceva il messo che, arrossendo sempre di più, chiese il permesso di congedarsi.

"Un momento." lo bloccò Ludovico, asciugandosi gli angoli degli occhi che lacrimavano per il troppo ridere.

Il messaggero restò al suo posto, porgendo però la lettera al cancelliere, affinché potesse farne quel che voleva.

"Secondo il nostro oratore, quindi – riprese il Moro, tornando finalmente serio – mia nipote l'avrebbe solo come amante o se lo sarebbe sposato?"

Il giovane era sul punto di dire che non ne aveva idea, tuttavia l'oratore milanese a Bologna, colui che l'aveva mandato a Milano in fretta e furia, aveva detto chiaramente cosa pensava.

Così, schiarendosi la voce, il messo disse: "Si ritiene probabile che loro si siano sposati, perché è questa la voce che gira nel loro Stato."

"Andate pure." lo congedò finalmente Ludovico.

Non appena fu solo con il nipote e con Calco, il Duca si lasciò andare a un gesto di impazienza e commentò, a denti stretti: "Ma che lo pago da fare, io, un oratore a Forlì, se poi queste cose le devo sapere dalle chiacchiere dei pettegoli di Bologna?!"

Il cancelliere, che aveva appena finito di rileggere la lettera, cercò di andare al sodo, tralasciando quei dettagli: "Quello che ci interessa – gli disse, cercando appoggio anche in Ermes – adesso è capire se si sono davvero uniti in matrimonio e perché."

"Perché mia nipote è una Sforza, ecco perché!" sbottò il Moro, trovando quell'ultima frase assurda e pretenziosa: "Non cercate tanti motivi! Se si è incapricciata di quel fiorentino, ci credo che l'abbia sposato senza pensarci un momento! Vi ricordo che aveva sposato anche uno stalliere analfabeta, per lo stesso motivo!"

Ermes tossicchiò un paio di volte e provò a dire: "Questa volta è una cosa molto diversa, se mi permettete. Giovanni dei Medici rappresenta Firenze."

Il Duca agitò una manona in aria e si trovò da solo a pensare che se sua nipote Caterina fosse stata un uomo, sarebbe stato tutto più semplice. Anche se, forse, sarebbe stato complicato tenerla a freno.

A ben pensarci, Ludovico era un uomo ed era molto più potente di lei, eppure nemmeno lui si azzardava a fare certe cose...

Con tono sbrigativo, il signore di Milano disse: "Ho bisogno di pensare un momento... Pensate voi alle udienze di oggi."

"Io credo che dovreste farvi vedere più presente, con i milanesi... In molti vi criticano aspramente perché..." prese a dire Bartolomeo, ma il suo signore lo stava già mettendo a tacere con un'occhiataccia.

"Non state a dire a me quel che devo fare. Dite che sono indisposto. Oppure dite a tutti che sto spiegando al mio caro parente di Pesaro cosa deve fare con sua moglie. Sono convinto che i milanesi apprezzeranno questa nota di colore. Che si distraggano pensando alle sue disavventure amorose..." fece il Duca, già andando alla porta e lasciandosi alle spalle i suoi impegni di Stato.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now