Capitolo 439: De morte Ioannis Medicis

277 26 51
                                    

"Non hai nemmeno avuto il coraggio di andare a vederlo." sussurrò Semiramide, prendendo un pezzo di pane dal centro della tavola e iniziando a masticarlo silenziosamente.

La donna, da quando aveva rivisto il corpo del cognato, non aveva fatto altro che piangere e quello era uno dei primi momenti in cui i suoi occhi erano sgombri da lacrime. Nemmeno quando era morto Averardo, forse, aveva pianto tanto.

Fino a che il cadavere di Giovanni era stato lontano, non aveva sentito in modo tanto pressante il vuoto che aveva già lasciato. Adesso, invece, che mancavano poche ore alle esequie, non riusciva a fare altro che disperarsi e pensare a come lui e Lorenzo si fossero lasciati l'ultima volta, e ogni ricordo era solo una stilettata in più nel petto.

"E cosa avrei dovuto vedere?" fece il Popolano, secco, rifiutando di prendere da mangiare, malgrado il suo stomaco fosse così vuoto da fargli male.

Aveva incrociato suo figlio Pierfrancesco, la sera prima, di ritorno dalla veglia organizzata in chiesa per Giovanni. Lo aveva visto scosso e in lacrime. Poi aveva visto gli altri suoi figli, e poi sua moglie. Erano tutti in quello stato. Lui, invece, si sentiva come anestetizzato.

"Fai come vuoi." fece allora l'Appiani, facendo grattare la sedia contro il pavimento e alzandosi, pulendosi appena gli angoli delle labbra con la punta delle dita: "Ma se non ti prenderai un momento, prima che lo mettano in una tomba, non te lo perdonerai, lo so."

Lorenzo fissò la donna, mentre si allontanava e non poté evitare di trovarla bella come il giorno in cui gliel'avevano data in moglie. Anche se il vestito nero era un po' frusto – era lo stesso che aveva indossato a lungo alla morte di Averardo – il modo in cui incedeva, la rendeva elegante e affascinante, come sempre.

Il Medici abbandonò la schiena contro la sedia e guardò un momento il soffitto. Poi chiuse gli occhi, concentrandosi sul rumore fine delle fiamme basse del comune e del ticchettare della pioggia che cadeva in sbieco contro la finestra.

Deglutì un paio di volte, cercando di pensare, ma tutto quello che gli frullava per la testa, nel farlo, erano le parole vergate da Andrea Pazzi nella sua ultima lettera, con le quali sottolineava come la Sforza non avesse alcuna intenzione di essere ragionevole. E subito dopo, nitide come se le avesse davanti agli occhi, Lorenzo vedeva le lettere scritte dalla mano crudele di quella donna, che nel rivolgersi a lui aveva avuto l'ardire e la cattiveria di firmarsi 'Caterina Sforza Medici'.

"Desiderate ancora qualcosa?" chiese uno dei servi, vedendo come il Popolano non avesse più toccato cibo e paresse immerso in un altro mondo.

Questi si riscosse e poi, alzandosi in fretta, commentò: "No, no... Adesso devo... Devo..." e uscì dal salone senza trovare il modo di concludere la sua dichiarazione.


"Guidobaldo Maria da Montefeltro, Bartolomeo d'Alviano e Carlo Orsini." elencò Jacopo Appiano, riassumendo la situazione: "Si stanno muovendo in massa verso Marradi e da lì probabilmente assalteranno la rocca di Castiglione."

La pioggia cadeva con tanta assiduità e con gocce tanto grosse che il padiglione di Ranuccio da Marciano sembrava preso di mira da centinaia di bombarde. La voce sottile di Jacopo quasi non si sentiva e il comandante fiorentino dovette addirittura fargli ripetere le ultime parole.

"Strozzi." fece Ranuccio, indicando Matteo Strozzi, che aspettava ordini accanto a lui: "Prendete duecento uomini e portate alla rocca di Castiglione vino e acqua, in quantità bastante per rifocillare i nostri alleati, ma senza mettere in difficoltà noi, sia chiaro."

Mentre Strozzi annuiva, già pensando a come organizzare la spedizione, il suo superiore andò verso l'ingresso della tenda e guardò fuori. Quell'ultimo giorno di settembre, il mondo era grigio, preda di un diluvio incredibile, la terra trasformata in fango e il cielo in una cascata gelata.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now