Capitolo 295: Il papa ha dieci anime

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Giovanni Medici, assieme a una piccola scorta di armati presi momentaneamente al soldo tra i soldati della Contessa, era partito da Forlì da qualche giorno, eppure Caterina continuava a ripensare allo strano scambio di confidenze che avevano avuto la notte in cui lei era tornata da Imola.

La vita, nella rocca e in città, continuava come al solito e la Tigre si trovava sempre più divisa tra gli impegni pubblici e quelli familiari.

Dal lato politico, i suoi problemi si stavano via via ingigantendo.

La questione del sale si stava dimostrando una matassa difficile da sciogliere, soprattutto perché da Cervia era arrivata la definitiva conferma che per quell'anno la produzione sarebbe rimasta ferma.

In più i contadini continuavano a presentarsi a frotte, quando era giorno di queste, e Caterina, per quanto cercasse una soluzione che fosse indolore per tutti, non riusciva a venirne a capo e così i suoi Consiglieri. Lo strapotere dei Cavalcanti era a tutte le evidenze inattaccabile e, anche facendo saltare qualche testa e mettendo uomini diversi al posto dei vecchi, era certo che presto la situazione sarebbe tornata come in partenza.

Accanto a questo, la Contessa si era messa d'impegno, smossa in parte dalla morte della sorella, nel tentare di recuperare quel che poteva in ambito familiare.

La dipartita di Bianca aveva fatto scattare di nuovo in Caterina una molla che da tempo non funzionava più. Il modo improvviso in cui la sorella, proprio quando stava per raggiungere il suo obiettivo, era stata strappata alla vita, aveva messo una pulce nell'orecchio alla Tigre, che aveva risentito, dopo anni, le parole di sua nonna Bianca Maria Visconti.

Ricordava bene, benché all'epoca fosse molto piccola, come la matriarca ricordava l'importanza di una famiglia unita. Tenere insieme i pezzi, ecco qual era il segreto per creare una stirpe capace di passare indenne attraverso i decenni e i secoli.

Così Caterina si era metaforicamente rimboccata le maniche e aveva fatto del suo meglio per far la pace con il suo ruolo di madre e di capofamiglia.

Cercava di tenere molto in conto i progressi di Galeazzo, che si stava sforzando con tutto se stesso di dimostrarle il suo valore, per quanto non ancora undicenne. Lo seguiva nei suoi allenamenti e a volte si presentava mentre il ragazzino era a lezione da uno dei precettori e restava ad ascoltare quel che il figlio aveva imparato.

Teneva d'occhio Bianca e Cesare che, seppur in modo differente, avevano accusato molto la perdita della zia. La prima si era fatta più chiusa, silenziosa, e pareva aver anche perso interesse in molti dei passatempi in cui di solito indugiava, come l'andare nelle cucine a chiacchierare o fermarsi negli alloggiamenti delle truppe per giocare ai dadi. Il secondo, invece, aveva ripreso, con cautela, a non sfuggire più la madre e più di una volta si era fatto trovare a tavola alla stessa ora in cui vi andava lei.

Quando necessario, Caterina preparava galenici per Livio, che aveva ripreso a soffrire di polmoni e, quando faceva in tempo, passava anche un po' di tempo con Sforzino, che cercava però più la compagnia delle balie che non della madre.

Lucrezia, come a supplire le mancanze della figlia, si dedicava quasi esclusivamente a Bernardino, sistemandogli i vestiti e coccolando tutte le volte che se lo trovava davanti.

In più la Landriani si trovava spesso nella posizione di dover in qualche modo difendere il nipotino più piccolo, dato che veniva chiamato spesso dai soldati che lo seguivano 'il povero orfanello'.

La donna ribatteva, quando sentiva dire quella cosa da qualcuno, che il bambino non era un povero orfanello: "Una madre ce l'ha, e si tratta di una Contessa!" ma ogni volta, dopo qualche sguardo in tralice, gli armigeri che avevano dato dell'orfanello al figlio del defunto Barone Feo facevano finta di nulla e tornavano ai loro discorsi, come se Lucrezia non avesse nemmeno aperto bocca.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now