Capitolo 433: Et so quello che dico.

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Niccolò Castagnino rise di gusto e Gaspare non riuscì a evitare di rispondere a quella risata con l'espressione più seria che conosceva.

Accanto al reggente faentino stava, spaurito e silenzioso, Astorre Manfredi. Aveva lineamenti molto belli e i suoi tredici anni lo rendevano un ragazzino a metà strada tra l'infanzia ancora florida e le forme flessuose snelle della prima adolescenza.

L'unica cosa che di lui restava realmente impressa, però, secondo il Fracassa, erano gli occhi. Non perché avessero un particolare taglio o un colore notevole, ma perché erano fissi, inespressivi, quasi come due pezzi di vetro.

"E perché mai, sentiamo, dovremmo impedire il passaggio dei veneziani in Val di Lamone? È risaputo che il Doge ci offre protezione e il passaggio ci farà guadagnare soldi che ci servono. Soldi che ci servono soprattutto per colpa della Contessa Riario, che ha ben pensato di ridurre quasi fino ad abolire i commerci tra le sue città e la nostra." disse Castagnino, le iridi fredde che scrutavano quasi divertite il Sanseverino.

Questo si prese un momento e osservò con attenzione il salone del palazzo dei Manfredi e già di primo acchito lo trovò molto più ricco e curato di quello della Sforza. Lo avevano fatto attendere fino a quel mattino, lasciandolo dormire in un delle camere destinate agli ospiti importanti e non aveva potuto fare a meno di restare estasiato dal materasso soffice e dall'ottimo cibo che gli era stato offerto, benché si fosse fidato a mangiarlo solo dopo averlo fatto assaggiare prima al ragazzetto che glielo aveva portato in camera.

Tuttavia la pochezza di Castagnino e la strana lontananza che si leggeva nel volto di Astorre erano un segno di povertà immenso, rispetto a quel che si poteva trovare alla corte della Tigre, che, per quanto paresse grezza e un po' troppo informale, era un corte molto più viva e dinamica.

"Perché se li lascerete passare, ho ordine diretto del Duca di Milano di attaccarvi con il mio esercito." disse il Fracassa, senza fare una piega.

Niccolò lo fisso un momento e poi scoppiò di nuovo a ridere, ma quella volta la risata gli morì in gola dopo pochi istanti: "State mentendo."

"Se così credete... Vi assicuro che per noi sarebbe più semplice radervi al suolo e basta, ma la Tigre ci ha pregati prima di fare questo tentativo." disse in fretta Gaspare, infilandosi i guanti e dando segno di esser pronto ad andarsene: "Ma se preferite essere attaccato..."

"Se ci attaccaste, Venezia interverrebbe..!" sbottò Castagnino, cominciando a sudare freddo.

"Certo. Vendicherebbe la vostra morte. Che bella consolazione, vero?" sorrise il Sanseverino e poi voltò i tacchi e si avvicinò all'uscio.

"Va bene!" esclamò allora Niccolò, preso dal panico: "Accettiamo!"

Astorre, accanto a lui, rimase del tutto impassibile, come se il suo tutore non avesse nemmeno aperto bocca.

"Vedo che siete meno stupido di quanto sembriate." commentò a denti stretti Fracassa.

"Ma dite alla Sforza, che aspettiamo sua figlia, l'incantevole Bianca, qui a Faenza. Non più tardi di gennaio." rimarcò il tutore del Manfredi, come a voler rimarcare comunque la sua importanza.

Gaspare sapeva, per precisa direttiva della Contessa, che quel matrimonio non doveva in alcun modo diventare effettivo e quindi sapeva già che la Leonessa non avrebbe mai mandato la figlia a Faenza.

Di certo non avrebbe gradito di sapere che lui si stava prendendo quell'impegno, ma in fondo a gennaio mancavano ancora più di tre mesi. C'era ben tempo di inventarsi qualcosa.

"È un piacere poter scendere a patti con qualcuno che capisce qualcosa." concluse il Fracassa, tornando indietro e stringendo la mano a Castagnino.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora