Capitolo 329: Acta est fabula. Plaudite!

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 "Ovviamente quello che mi state proponendo mi interessa." disse la Contessa, cercando di fare attenzione alle parole: "Tuttavia, sareste un autentico sciocco a prendervi gioco a questo modo di Firenze. State giocando con il fuoco e sembrate non rendervene nemmeno conto!"

Giovanni, che aveva dovuto aspettare quasi tutto il giorno, per poter parlare da solo con Caterina, si massaggiò il collo e sollevò un sopracciglio: "Quello che ho riferito e che riferirò a Firenze sarà ben diverso da quello che sto facendo in realtà. Con voi parlo chiaro, ma con la Signoria non sono altrettanto sincero. Se lo fossi, mi avrebbero già rimesso in cella, probabilmente."

"Resta una mossa insensata." ribadì la Tigre, lasciando la poltrona su cui si era accomodata all'inizio, ed evitando di fare domande su cosa intendesse di preciso il Popolano con quel 'rimesso'.

La sala delle letture era calda e accogliente, con il camino acceso e qualche cosa da mangiare sul tavolino, assieme a una brocca divino.

Quando il castellano le aveva detto che il Medici la stava aspettando, la Contessa aveva preso tempo, prima di presentarsi, convinta che quell'uomo volesse ancora cercare di convincerla che per loro una speranza c'era. Si era attesa – o forse aveva addirittura sperato – di essere accolta con un altro bacio, simile a quello che si erano scambiati al suo ritorno a Ravaldino.

Invece il Popolano l'aveva salutata in modo molto pacato, partendo subito con l'esposizione del suo piano, parlandole con la stessa franchezza e semplicità che aveva sempre usato, come se tra loro non fosse cambiato assolutamente nulla.

"Seimila corbe di grano non sono uno scherzo. Se Firenze le vuole per sé, dovete lasciargliene almeno una parte." continuò Caterina, scuotendo lentamente il capo: "Non potete far finta che quel grano sia mio, comprato coi miei soldi, e che voi non siate riuscito a mediare l'acquisto. Se continuerete così, finirà che vi richiameranno a Firenze e che qui manderanno qualcun altro..."

Giovanni si passò le dita sulla fronte. Non poteva negare che il rischio fosse concreto, ma non gli importava. Sapeva come muoversi, sapeva come convincere la gente. Era un Medici, qualcosa voleva pur dire.

Il ginocchio e le caviglie lo stavano tormentando in modo severo da un paio d'ore, ma voleva restare concentrato su qualcosa di completamente diverso. Se avesse lasciato spazio al dolore fisico, non ci sarebbe stato più altro.

Così, pur restando seduto in poltrona, una mano che passava distrattamente sul ginocchio di quando in quando, il fiorentino assicurò: "Partirò il prima possibile per portare a termine la transazione. Quel grano sarà vostro e di nessun altro. Non voglio nulla in cambio. Il vostro Stato ne ha bisogno e nessuno vi farà credito. Se non lo accetterete da me, adesso, come farete a passare l'inverno senza che scoppino dei tumulti per la fame?"

"Ma Firenze vuole il grano tanto quanto lo voglio io. Come giustificherete il fatto che a Forlì sono passate sotto al vostro naso seimila corbe di grano e voi non siete stato in grado di comprarne nemmeno mezza?" fece la Contessa, piantando i pugni sui fianchi e mettendosi a fissarlo.

"Questi sono affari miei." ribatté l'ambasciatore, quasi perdendo la pazienza: "Voi dovete solo dirmi questo: il grano lo volete oppure no?"

La Tigre fu tentata di dire di no. A quel modo, forse, avrebbe ferito l'orgoglio di Giovanni, che sembrava tanto fiero di aver trovato quell'affare, e così l'avrebbe davvero indotto a consegnare il grano a Firenze, così come la repubblica aveva richiesto.

Invece, vinta dal bisogno urgente sia di sfamare il proprio Stato, sia di ritrovare il favore popolare, abbassò le spalle e cedette: "Lo voglio, quel grano."

Il Popolano fece un sorriso e si alzò, puntellandosi sui braccioli della poltrona: "Molto bene. Non mi resta che chiudere l'acquisto, allora. Partirò appena dopo Capodanno."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now