Capitolo 336: Felix criminibus nullus erit diu.

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Mancavano solo tre giorni al Martedì Grasso, qualcuno in più al Carnevale ambrosiano, eppure Milano era immersa in un'atmosfera funerea che pervadeva così profondamente ogni angolo della città da convincere anche i meno sensibili a non tenere le consuete feste sfarzose e allegre, tanto che si sembrava già in piena Quaresima.

Era sabato e Ludovico era alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. In quel giorno della settimana, aveva deciso, avrebbe sempre mangiato lì, in una stanzetta scurita da drappi neri che aveva fatto preparare appositamente per lui. A quel modo, gli pareva di essere più vicino a Beatrice, sepolta non molto lontana da lui.

Aveva deciso che quella saletta sarebbe stata dedicata a Santa Beatrice, così come la cappella meridionale a forma di esedra che avrebbe fatto presto allestire per ampliare la chiesa.

Quando il prete gli aveva detto a quale Santa Beatrice si stesse riferendo di preciso, il Moro aveva agitato le manone per aria e aveva risposto, sgraziato: "Quella che vi pare a voi, prete pedante che non siete altro!"

E dunque stava rimuginando tra sé, davanti a un misero piatto di verdura, insipido e scialbo, così com'era ormai la sua vita. Stava pensando che forse sarebbe stato bello far costruire anche una cappella dedicata a un San Ludovico, nella parte nord della chiesa. A quel modo, lui e sua moglie, almeno figurativamente, sarebbero stati per sempre congiunti.

Stava mangiando in piedi, come ormai faceva sempre e, essendo del tutto solo, si permise anche di mescolare la zuppa con qualche lacrima.

Quella notte era stato negli appartamenti di Lucrezia Crivelli, in cerca di conforto. La donna aveva smesso di chiedergli favori per il fratello e aveva dimostrato per lui un affetto sincero che aveva sorpreso molto il Duca.

La donna aveva passato la notte a sussurrargli parole di sostegno e lo aveva stretto forte a sé tutte le volte che lui era scoppiato a piangere.

Lucrezia, ormai, era grossa di circa otto mesi e la sua età abbastanza avanzata sembrava renderla un po' insofferente alla sua condizione, tuttavia non si lamentò nemmeno una volta per la notte insonne, anzi, quando il Moro la lasciò, al mattino, ancora con gli occhi gonfi e la gola in fiamme, la Crivelli gli sussurrò, accorata: "Torna quando vuoi. Io sono qui per te."

Appoggiandosi un momento con le mani al tavolino a cui stava appoggiato il suo misero piatto di minestrone, Ludovico chiuse un istante gli occhi, cercando di rievocare l'immagine di Beatrice.

Lasciando il resto del suo pasto a raffreddarsi, uscì dalla saletta e andò al coro absidale, dov'era sepolta sua moglie.

Con lentezza si inginocchiò davanti alla tomba, giunse le mani e cominciò a pregare.

Sapeva che Beatrice aveva commesso tanti peccati, in vita, e lui l'aveva sempre appoggiata, anche quando la credeva in torto. Ora stava cercando di usare la sua vita come mezzo per riscattare l'anima della donna che aveva amato.

Faceva celebrare Messe a ogni ora in ogni angolo del Ducato, versava ingenti oboli alla Chiesa e pregava tutte le volte che poteva, ma non gli sembrava abbastanza.

Ragionando a fondo, ignorando lo stomaco che si ribellava al poco cibo ingerito, Ludovico trovò nell'elenco dei peccati della moglie quella che a suo parere era stata la colpa più grande di Beatrice.

Quando tornò al palazzo di Porta Giovia fece subito convocare Bartolomeo Calco nel suo studio.

"Mi avete fatto chiamare?" si annunciò il cancelliere, con un inchino molto profondo.

Il Moro guardò con approvazione l'espressione mesta di Calco e i suoi abiti scuri, a lutto, e poi si schiarì la voce e disse, in fretta: "Voglio liberare Isabella d'Aragona e i suoi figli. Predisponete per la loro scarcerazione. Verranno qui a Milano. Resterà a Pavia solo il figlio maschio, ma non più rinchiuso nella torre. Gli dovranno essere riconosciuti i suoi diritti come mio consanguineo, dunque verrà finalmente trattato come il nobile che è."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora