C351:La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli

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Agostino Barbarigo guardò Pandolfo Malatesta con sguardo tagliente e poi, accarezzandosi mellifluo la lunga barba bianca constatò: "Nessuno vi ha detto di venire fino a Venezia con novanta persone al seguito."

Il signore di Rimini fece una smorfia e si guardò la punta dei piedi. La sala delle udienze era gremita e non sopportava di essere messo così in ridicolo davanti a tutti.

Aveva cercato di convincere sua moglie Violante ad andare al posto suo, o almeno a strappare al Doge il permesso di un incontro privato, così come sua madre Elisabetta era riuscita a ottenere durante il suo ultimo viaggio nella Serenissima.

E invece Violante aveva finto di essere indisposta e quando il Pandolfaccio aveva provato a tergiversare, il portavoce dei suoi servi gli aveva fatto capire che se la paga non fosse arrivata, se ne sarebbero tornati tutti in Romagna anche senza di lui.

"Conosco gente molto più importante di voi che gira mezza Italia con appena un servo o due al seguito." riprese Barbarigo, con un sospiro che sapeva di amara derisione, mentre i suoi occhi brillanti cercavano consensi tra i veneziani presenti.

Il Malatesta abbassò ancora di più il capo e disse, con voce scontrosa e molto bassa: "Vi chiedo solo un indennizzo, in favore di quello che sto facendo per voi."

Il Doge aveva sentito, malgrado il tono dimesso usato da Pandolfo, ma nulla gli tolse il piacere di chiedergli di ripetere a voce più alta: "Non fate il ragazzino spaventato! Date aria a quei polmoni!"

Così il signore di Rimini, umiliato e furente, ripeté la sua richiesta e infine Barbarigo decise di cedere alla richiesta.

Con un altro profondo sospiro e con un sopracciglio sollevato, decretò: "Avete ragione, concedere che Venezia venisse da voi a Rimini a sedare una rivolta dovuta al vostro sconsiderato crimine ai danni di una povera giovane è stato molto magnanimo, da parte vostra."

Il pubblico rise di gusto e il Malatesta poté solo incassare il colpo, le mani dietro la schiena e i lunghi capelli neri che gli coprivano il viso infiammato di vergogna.

"Vi daremo una provvigione giornaliera di dodici ducati per provvedere alle vostre ingenti e inutili spese." concluse il Doge, battendo una mano contro l'altra, a indicare che la questione era chiusa, salvo poi soggiungere: "Ma dovrete tornarvene a Rimini il prima possibile."

"Appena la peste avrà lasciato le mie terre – assicurò Pandolfo, che in realtà aveva sentito dire che il morbo per ora era più a sud del suo confine, ma era certo che prima o poi avrebbe preso anche Rimini – tornerò a reggere a voi il governo."

"Bravo, bravo..." soffiò il Doge, stufo di vederselo davanti, quasi rimpiangendo i modi strambi eppure accattivanti di Elisabetta Aldovrandini: "Adesso siete libero di andare... Ho altre udienze da fare oggi..."


 Caterina si chinò ancora un attimo sul giovane uomo che stava steso sul giaciglio di paglia e poi si ritrasse, tenendo lo straccio intriso di profumi davanti al naso e alla bocca, come il medico l'aveva obbligata a fare.

"Da quanti giorni è così?" chiese, scostando un attimo il riparo dalle labbra, per poter parlare meglio.

La madre del ragazzo scosse piano la testa e provò a ricordare: "Un paio."

La Contessa occhieggiò verso la donna e poi verso il dottore, che l'aveva seguita senza indugio appena aveva saputo che stava andando a vedere i primi malati, e infine verso Giovanni, che le stava accanto, anche lui con una pezza davanti al volto.

"Dovevate dirlo subito." fu il rimprovero della Tigre, mentre faceva segno ai due servi che si era portata appresso per aiutarla.

Non aveva ancora preso a stipendio dei monatti, perché prima voleva essere certa che si trattasse di peste, e così aveva offerto una paga in più ai domestici che avessero voluto seguirla in paese a controllare i malati. Avevano accettato solo in due.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now