Capitolo 355: Grave ipsius coscientiae pondus.

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Il crepitare lento delle braci nel camino si era affievolito notevolmente, con il passare delle ore.

Caterina non era riuscita a prendere sonno, benché ci avesse provato in ogni modo e malgrado la stanchezza che quella giornata – e quelle che l'avevano preceduta – le aveva messo addosso.

Giovanni, invece, dormiva profondamente, accanto a lei. Le coperte pesanti gli arrivavano al collo e il suo volto aveva dipinta un'espressione di perfetta calma.

La moglie si prese qualche momento per osservarlo nella penombra della stanza e non riuscì a fare a meno di ripensare alla discussione che avevano avuto il pomeriggio prima e, soprattutto, al modo in cui aveva finito per appianare le loro divergenze.

Quel genere di riappacificazione, alla Tigre ricordava troppo quelle a cui lei e Giacomo si piegavano ogni volta che qualche divergenza cercava di allontanarli.

Anche se sapeva benissimo che il fiorentino era un uomo di tutt'altra pasta e che, se era tornato da lei, non era stato solo perché la desiderava, ma perché ci aveva ragionato sopra e aveva deciso che non poteva fare altrimenti, la Sforza sentiva comunque crescere dentro di sé una sensazione molto spiacevole.

Ripensò anche alle parole che l'appestato aveva detto di lei davanti a tutti i soldati che erano accorsi a vedere che stava accadendo.

La Contessa era conscia del fatto che, probabilmente, tra gli uomini presenti ce n'era almeno uno che aveva subito la stessa sorte di quel poveraccio.

Se in un primo tempo aveva sempre allontanato con attenzione dalla rocca tutti i suoi amanti occasionali, con il tempo si era fatta un po' meno attenta e qualcuno che era a suo tempo stato debitamente allontanato, ormai era tornato.

Si chiese se potesse esserci qualcosa di vero, nelle illazioni che la volevano come causa scatenante di quell'epidemia.

Quando, per convincersi che non poteva essere così, si schermava dietro all'evidenza che anche altre città erano state colpite, alla fine doveva ammettere con se stessa che anche i signori degli altri Stati avevano peccati da farsi perdonare.

Sentendo una forte confusione nella testa, Caterina guardò ancora un momento il viso disteso di Giovanni, sulla cui fronte erano scivolati un paio di riccioli castani e un nuovo nodo le strinse lo stomaco.

Se in un'altra occasione si era rifiutata di amarlo in quella stanza, che per lei era uno dei simboli del suo smarrimento dopo la morte di Giacomo, quella volta non aveva saputo resistergli.

Il pensiero, però, ora che aveva la mente più fredda e poteva ragionare in modo più distaccato, le dava la nausea.

Con lentezza, muovendosi in modo sinuoso per non svegliare il marito, la Tigre scivolò fuori dalle coperte.

Lo sbalzo di temperatura dal tepore delle lenzuola al fresco della stanza la fece rabbrividire. Velocemente prese l'abito che le era stato tolto la sera prima e se lo infilò. Mise le scarpe e recuperò, sempre con una silenziosità invidiabile, un mantello dalla cassapanca.

Voltandosi un'ultima volta a guardare Giovanni, che ancora dormiva, Caterina uscì.

Attraversò in fretta la rocca e si diresse senza indugio alla chiesa di San Tommaso Apostolo. Anche se dava mostra di non badare a dove andasse suo figlio Cesare, in realtà era a perfetta conoscenza dei suoi spostamenti.

Dunque, passata inosservata dai pochissimi che a quell'ora erano già in strada, arrivò in piazza quando ancora non era sorto il sole.

L'aria era fredda e il cielo sembrava ingrigito. Caterina lanciò un'occhiata al palazzo dove aveva vissuto con il suo primo marito e dove ancora teneva le riunioni del Consiglio.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now