Capitolo 383: Simpliciter pateat vitium fortasse pusillum

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"Hai avuto davvero una bella idea..." disse Giovanni, togliendosi il mantello, infreddolito, e sistemando il cibo che avevano portato con loro sul tavolo.

La Casina, immersa nel buio dell'ultima notte dell'anno, era resa ancora più intima e silenziosa dal manto nevoso che la copriva. Il fiorentino e la Contessa avevano sistemato i cavalli nella stalla, badando bene che fossero il più riparati possibile, e poi erano andati al coperto anche loro.

All'inizio, quando Caterina aveva proposto di passare lì il Capodanno, lontano da tutti, evitando banchetti sontuosi o feste caotiche, il Medici era subito stato d'accordo, ma si era opposto all'idea di partire dalla rocca a sera fatta.

Come spesso gli capitava, però, alla fine aveva chinato il capo al volere della moglie e, dopo essere andato con lei dai Numai per accompagnare lì i figli, che avrebbero formalmente preso parte in vece loro al ricevimento a casa del Consigliere, Giovanni e la Sforza avevano preso un paio di cavalli e, nel buio, avevano raggiunto la Casina.

"Sei tranquilla a pensare ai ragazzi a casa di Luffo Numai?" chiese il fiorentino, vedendo la moglie con lo sguardo perso nel camino in cui cominciava a scoppiettare una piccola fiamma.

La Casina, essendo piccola, necessitava poche candele per essere illuminata e quel caminetto dava il tocco finale, fornendo luce sufficiente per passare tranquillamente la serata e la notte.

La Contessa soffiò e poi, guardando il marito da sopra la spalla, confermò: "Di qualcuno mi devo pur fidare. E almeno così i forlivesi inizieranno a capire che devono far riferimento anche a loro."

Giovanni strinse le labbra senza dire nulla e attese che la moglie smettesse di armeggiare con il camino, prima di dirle: "Ti ho portato una cosa da leggere. Non te l'avevo mai mostrate, queste pagine, perché all'inizio ti credevo troppo..." 'Cupa' stava per dire, ma raddrizzò il tiro schiarendosi la voce: "Diciamo seriosa, poi me ne sono dimenticato... Ma adesso sono certo che le apprezzeresti."

La Tigre, mettendosi più comoda, si sedette sul letto e aspettò che il fiorentino le porgesse gli scritti.

"Sono di tuo cugino." notò Caterina, quando lesse in alto l'appunto scritto con la grafia di Giovanni, in cui si imputava la paternità dei versi che seguivano a Lorenzo 'il Magnifico'.

"Sì." confermò il Medici, andandosi a sedere accanto a lei, spalla contro spalla: "Li aveva scritti per un Carnevale. Ecco – le disse, indicando la seconda con un sorriso tra il divertito e l'intrigato dipinto sulle labbra – leggi questa."

La Sforza cominciò a bassa voce: "Donne, noi siam maestri d'innestare; in ogni modo lo sappiam fare..." poi proseguì per qualche verso muovendo solo le labbra, per rialzare dopo poco la voce, occhieggiando verso Giovanni con un luccichio divertito negli occhi, sintomo che il doppio senso voluto dal Magnifico le era arrivato all'istante: "L'arbor che innesti fa' sia giovinetto,
tenero, lungo, sanza nodi, schietto; dilicato di buccia, bello e netto, quando comincia a muovere e gittare..."

"Sapevo che ti sarebbero piaciuti..." esultò pacatamente il fiorentino, avvicinandosi ancora di più alla moglie e invitandola a proseguire.

"Certo che tuo cugino era un uomo sorprendente..." si lasciò scappare la Contessa, che aveva sempre nutrito un'innata ammirazione per il Magnifico di Firenze.

Il sorriso di Giovanni si spense appena, nel sentire quell'elogio così aperto, ma in breve tornò fresco a tranquillo come prima: "Avanti, vai avanti a leggere..."

La notte arrivò al suo culmine quando ancora i due stavano passando in rassegna i Canti scritti dal Magnifico. A quel punto, accesi dalle risate e dalla complicità che leggere assieme quel genere di componimenti aveva stuzzicato.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora