Capitolo 360: Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.

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 "Fatemi passare! Fate largo!" sgomitò Alessandro VI, spostando di peso le guardie che chiudevano l'accesso della stanza.

"Santità! Fermatevi!" lo implorò il soldato che aveva portato la notizia al papa pochi minuti prima, per poi doverlo inseguire fino a Castel Sant'Angelo, nel buio della notte che ormai era calata su Roma, nel tentativo di impedirgli di vedere il cadavere nello stato in cui lo avevano trovato: "Non fatelo, Santità! Il dolore sarà troppo..."

Ma mentre stava ancora dicendo quelle ultime parole, Rodrigo aveva attraversato lo stanzone in cui era stato deposto il corpo di Juan e si era gettato in terra davanti al figlio senza vita, lanciando un urlo straziante e scoppiando a piangere.

Quando si avvicinò, il soldato spagnolo trovò il papa riverso sul cadavere gonfio e sporco e tentò per un'ultima volta di sottrarre Alessandro VI a quella vista, che, a parer suo, poteva solo sommare dolore al dolore.

"Lasciatemi!" sbraitò invece il pontefice, quando l'uomo cercò di spostarlo prendendolo per un braccio: "Andatevene! Chiamate i miei figli! Chiamate Cesare! Chiamate Vannozza! Li voglio qui..."

Non vedendo come poter fare altrimenti, il soldato si ritrasse e andò a cercare i figli del papa e la sua vecchia amante.

Rimasto da solo, con unicamente un paio di guardie vicino alla porta che erano rimaste al loro posto per preservare la sicurezza del papa e del corpo ripescato dal Tevere, Rodrigo guardò il volto del figlio.

Juan era stato trasfigurato da una pugnalata in pieno viso, ma era comunque impossibile non riconoscerlo. Indossava ancora gli abiti sfarzosi che aveva scelto per la cena a casa della madre e il mantello, rovinato, era impiastrato con i rifiuti del fondo del fiume.

Più lo fissava, più il papa notava dei dettagli in quel cadavere, con una freddezza che quasi lo sconvolse, si rese conto che stava analizzando il corpo del figlio come se fosse di qualcuno che non conosceva.

Contò nove nette pugnalate, al viso, al torace, al ventre e alle gambe. Si accorse che la piccola bisaccia piena di monete d'oro era ancora al suo fianco, intatta. Allungò una mano e sciolse il nodo del cordino, che era imbevuto d'acqua, ma ancora al suo posto, come se nemmeno il Tevere avesse osato rubare i soldi a un morto.

Il papa contò trenta ducati d'oro. Trenta, come le monete con cui era stato pagato Giuda. Poteva essere? Era solo una casualità?

Cacciandosi i soldi nella tasca dell'abito, il Borja cominciò a pensare, elencando mentalmente una serie di possibili colpevoli, benché la rabbia e il dolore gli facessero dimenticare nomi e volti.

Quando sentì alle sue spalle i passi svelti di Jofré, Vannozza e Cesare, il pontefice si chiese fugacemente da quanto tempo fosse lì, accanto al corpo congesto di Juan. Forse ore, forse pochi minuti, chi poteva saperlo.

Quando si voltò, incrociò per un lampo gli occhi pieni di lacrime di Vannozza che, come Jofré, si lanciò in terra, accanto al cadavere di Juan, che era stato pietosamente posto su un rialzamento in legno, da cui sgocciolava ancora un misto di acqua di fiume e umori residui.

Cesare, a differenza degli altri, restò in piedi. Fissava il corpo senza vita del fratello con un'espressione assorta, quasi incredula.

Rodrigo, troppo scosso per farsi domande su quell'atteggiamento che poco si sposava con il modo di solito estroverso di manifestare il dolore e la rabbia di quel figlio, lo abbracciò con forza e gli sussurrò all'orecchio: "Adesso sei tu, Cesare, il mio erede..."

Il giovane restò rigido, all'abbraccio del padre e, quando il papa si spostò un po' da lui, lo guardò con occhi taglienti e, storcendo il naso all'odore pressante dell'incenso e delle candele che li circondavano, ribatté: "Doveva morire lui, per poter avere il mio posto nel vostro cuore?"

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now