Capitolo 263: Non uccidere.

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"Deve esserci un errore!" sbraitò Agostino Marcobelli, mentre due guardie lo afferravano per le braccia, trascinandolo via dalla tavola su cui ancora fumava la cena.

"Nessun errore. Siete stato accusato pubblicamente assieme a vostro fratello!" rimbeccò uno dei soldati che stavano sulla porta, in attesa.

Mentre dalla cucina veniva, infatti, prelevato Agostino, altri uomini erano saliti al piano superiore della casa per rastrellare ogni angolo in cerca di suo fratello Bartolo. Ebbero facile successo e quando tornarono di sotto, avevano con loro altri due prigionieri oltre a quello che stavano espressamente cercando.

Il primo, infatti era il ricercato Bartolo Marcobelli, in uno stato di mezzo abbandono, con la barba lunga e i capelli arruffati. Probabilmente era rimasto rintanato nel buco del pavimento in cui era stato trovato fin dalla sera in cui era stato assassinato Giacomo Feo.

Il secondo era il figlio di Bartolo, il giovane Ludovico, che era in una condizione non migliore di quella del padre, e il terzo era Guglielmo, un parente infermo che Agostino si era tirato in casa da anni per puro buon cuore.

Quest'ultimo non riusciva nemmeno a stare in piedi, tanto che i soldati lo dovettero portare giù dalla scale tenendolo in braccio come fosse un neonato.

"Avanti, andiamo." ordinò il Capitano Pietro Calderini che era a capo della spedizione, conducendo i quattro prigionieri in strada, dove li attendevano altri soldati e Cristoforo Beccari, un altro complice che, a detta di Don Pavagliotta, era stato fondamentale nell'orchestrare il colpo.


 La notte era ormai scesa su Forlì e Caterina, dopo essersi ritirata per qualche ora nel suo laboratorio da alchimista, rifuggendo il sonno, si era messa a vagare senza meta per i camminamenti.

La città pareva più tranquilla, ma la Contessa sapeva che quella era solo un'illusione. Presto i forlivesi avrebbero accusato il colpo e allora avrebbero reagito, in un modo o nell'altro.

Aveva avuto la fugace tentazione di andare alla tomba di Giacomo, ma non ne aveva trovato il coraggio. Non voleva cadere in pezzi difronte a una lastra di marmo.

Se non era mai andata a far visita alla tomba del suo primo marito, Girolamo Riario, che stava a Imola, solo perché non ne vedeva la ragione, sentiva di non potersi recare con facilità nemmeno dinnanzi a quella di Giacomo, perché non l'avrebbe sopportato.

Le campane avevano appena ricordato a tutta Forlì che erano le due di notte, quando Calderini, seguito da un drappello di soldati e prigionieri si portò verso Ravaldino, illuminato da un paio di torce portate a mano e dalla luce della luna.

Improvvisamente, dalle mura della città, si sentì un fracasso assordante, grida e il suono ferreo di spade che cozzavano contro altre lame.

"Ma che rumore è mai questo?" chiese Bartolo Marcobelli che, malgrado avesse le braccia legate dietro la schiena e una spada puntata a mo' di monito contro il fianco, aveva ancora dell'ardire.

Calderini guardò verso il punto da cui arrivavano le urla e comprese che qualcuno si era illuso di trovare la fuga scalando le mura cittadine ed era già stato intercettato e colpito dalle sentinelle di guardia.

"E cosa c'entrate voi con quello? Che vi importa di sapere chi sia o chi non sia?" chiese il Capitano, tornando a guardare il suo prigioniero con alterigia: "Andate per la vostra strada. Vi tocca andare alla rocca. Non vi deve interessare d'altro."

Bartolo, che, proprio sapendo il destino che lo attendeva una volta varcate le porte della rocca di Ravaldino, sentiva di non avere più freni, sputò in terra, a pochissima distanza dai piedi di Calderini e inveì: "Ah! Corpo di Dio! Non sta a voi decidere cosa mi importa e cosa no!"

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora