Capitolo 384: Ribellione

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Marcheselli andò alla porta, trafelato, lasciando gli altri un attimo da soli nel salotto. Quel giorno era così importante non avere orecchie curiose in giro, che il padrone di casa aveva congedato quasi tutta la servitù, lasciando solo un paio di serve a occuparsi dell'economia domestica essenziale.

"Oh, finalmente siete qui..." disse Marcheselli quando, aprendo il portone del palazzo, si trovò davanti Piero e Ludovico Belmonte: "Prego, prego, entrate... Gli altri sono tutti di là."

I due lo ringraziarono con un cenno del capo, levandosi le berrette coperte da un leggero strato di pioggerella. Quel giorno era difficile capire se l'acqua, così fine e salmastra, arrivasse dal mare o dal cielo.

"E la ragazza come sta?" chiese Piero, fermando un momento Marcheselli e guardandolo con i suoi occhi profondi.

L'uomo alzò una spalla, accennando uno sbuffo: "Il dottore dice che di riprenderà. Però è rovinata lo stesso."

Belmonte annuì con gravità e assicurò: "Questa è la volta che liberiamo Rimini da quel pazzo."

Il padrone di casa fece un breve sorriso triste e sussurrò: "Lo spero. Lo spero davvero. Questa volta ha davvero passato ogni segno."

Quando i due Belmonte arrivarono nel salotto, trovarono già radunati attorno al tavolo i capifamiglia dei Cattani, dei Clementini, dei Magnani, dei Della Rosolaria, dei Diotallevi, degli Schiavina, degli Agolanti, degli Arnolfi e degli Adimari.

"Gli Agli?" chiese Ludovico Belmonte, facendo un rapido riassunto dei più abbienti di Rimini.

"Di loro non ci fidiamo." disse con freddezza Adimari: "Niente serpi in seno, se vogliamo rovesciare i Malatesta."

Ludovico guardò il parente Piero e poi convenne: "Avete ragione. Noi bastiamo. Avete già deciso quando colpirlo?"

Fu Marcheselli a prendere la parola. Fece un respiro profondo, giungendo le mani sul petto in modo abbastanza scenico e poi guardò gli altri congiurati uno dopo l'altro, prima di riassumere quello che era stato deciso fino a quel momento.

"Lo vogliamo colpire domani. Prima che si renda conto di chi era la donna a cui ha usato violenza." disse Marcheselli, faticando a moderare la voce: "Lo uccideremo alla Messa vespertina, nella chiesa di San Giovanni Evangelista."

"In chiesa?" chiese titubante Piero Belmonte.

"Almeno là si sentirà tranquillo." spiegò Agolanti, passandosi una mano sulla mandibola squadrata.

"Va bene." accettò senza indugi Ludovico Belmonte: "Ma dovremo esserci tutti. Dovremo sporcarci le mani tutti. Tutti quanti, nessuno escluso."


 Caterina si stava mordendo l'unghia del pollice, mentre leggeva con attenzione la missiva arrivata da Roma, scritta di proprio pugno da Ascanio Sforza.

Stava scendendo la sera e l'arrivo di quell'ennesima lettera dall'Urbe aveva distolto la Contessa da ogni altra cosa, facendole perfino scordare di andare a cenare.

Solo quando la porta della camera si aprì, lasciando entrare Giovanni, la Tigre si rese conto di che ora fosse e dello stomaco che brontolava.

"Ti ho portato pane e formaggio." disse il Medici, mettendole sulla scrivania un piccolo pacchetto di stoffa da cui arrivava un profumo invitante.

Sorpresa e al contempo compiaciuta nel vedere come le attenzioni del marito non diminuissero col tempo, la donna lo ringraziò e poi indicò il messaggio: "Mio zio Ascanio." disse, a mo' di spiegazione.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora