Capitolo 302: Unum quodque verbus statera auraria pendere

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L'aria nella stanza puzzava di chiuso, sporco e trascuratezza. La poca luce che filtrava dalla finestra alta permetteva di vedere la confusione che imperversava in ogni angolo.

Caterina, che si era subito richiusa la porta alle spalle, forse per paura che il figlio, nel vedere uno spiraglio di libertà, potesse scapparle da sotto al naso, ci mise qualche istante per trovare Ottaviano in quel caos silenzioso.

Il ragazzo era accucciato accanto al letto, le braccia lunghe e magre strette attorno alle gambe piegate.

La Contessa lo fissò, e si accorse che lui stava facendo altrettanto.

Aveva i capelli che arrivavano ben oltre le spalle, scompigliati e annodati. Sulle sue guance e sul mento si era fatta strada una barba scura, abbastanza folta per i suoi diciassette anni, e i suoi occhi rilucevano nella penombra come due punte di spillo.

"Alzati." disse piano la Tigre, sentendo la bocca seccarsi e il cuore battere sempre più forte.

Era passato quasi un anno, dall'ultima volta in cui si era trovata davanti Ottaviano. Ed era stato quando l'aveva condannato alla reclusione.

Il giovane sollevo sulle gambe secche con movimenti un po' stentati. Quando fu in piedi, Caterina si accorse che la superava in altezza di quasi tutta la testa.

Il suo corpo si era asciugato molto in quei lunghi mesi, forse anche per colpa delle restrizioni nel mangiare a cui l'aveva sottoposto.

Il suo volto era in gran parte nascosto dai capelli e dalla barba, la qual cosa gli dava un'aria negletta e disperata.

A uno sguardo più attento, però, la Contessa si accorse che comunque suo figlio non aveva le unghie lunghe e che i suoi abiti non sembravano troppo rovinati. Malgrado i suoi ordini, era chiaro che qualcuno avesse avuto un occhio di riguardo per lui, durante quella lunga detenzione.

"Avvicinati." ordinò la donna, restando ferma al suo posto.

Ottaviano deglutì, il pomo d'Adamo che correva nel collo lungo, ricordando in modo impressionante Girolamo Riario, suo padre. Anche il modo in cui camminava richiamò alla mente di Caterina il primo marito.

Quando il figlio si fermò, a meno di mezzo metro da lei, la Tigre si trovò a rimembrare di quando, ritornata precipitosamente da Milano, aveva trovato Girolamo chiuso in una stanza, lercio e disordinato. Al suo contrario, però, Ottaviano aveva gli occhi accesi e vigili, tutt'altro che folli.

Le pupille di madre e figlio si specchiarono le une nelle altre, cercando un punto di contatto e alla fine, nello stesso istante, entrambi sentirono il bisogno di avvicinarsi di più.

Caterina prese tra le braccia Ottaviano e il ragazzo la tenne stretta a sé quasi con rabbia. La madre ricambiò quello slancio con uno altrettanto violento e, prima che uno dei due riuscisse a capire cosa stesse accadendo, entrambi iniziarono a piangere.

"Perdonami." sussurrò la Leonessa, dando un bacio sulla tempia a Ottaviano.

Questi singhiozzò come un bambino e si aggrappò ancora di più alla madre che, forse per la prima volta nella sua vita, sentì una reale connessione con quel figlio che per troppo tempo aveva odiato in modo cieco e ostinato.

Quando i gemiti del giovane si affievolirono fino a spegnersi quasi del tutto, Caterina lo prese per le spalle e, gli occhi ancora lucidi, se lo mise davanti e chiarì: "Anche io ti perdono per quello che mi hai fatto, ma non farlo mai più."

Ottaviano scosse il capo e si buttò ancora una volta tra le braccia di sua madre e lei lo lasciò fare, accarezzandogli pian piano la nuca.

Sapeva che colui che la stava abbracciando era il reale assassino di Giacomo, ma sapeva anche che era suo figlio e che se era diventato così buona parte di colpa era sua. Era l'assassino dell'unico uomo che avesse mai amato, ma era anche il suo primogenito. Il primo figlio, quello che avrebbe dovuto essere la luce dei suoi occhi, secondo le regole del mondo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now