Capitolo 287: Potius sero quam nunquam

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Teramo era caduta sotto l'attacco puntuale e deciso di Virginio Orsini e il sacco di Villamarina e Giulianova aveva fruttato alla parte francese un bel po' di risorse alimentari e anche qualche sacco d'oro.

I napoletani si stavano impegnando nella difesa, Virginio ne era sicuro e ne riconosceva lo sforzo, ma erano deboli e demotivati e, anche se il loro re stava facendo il possibile per far sentire la propria presenza, non bastava di certo qualche bel discorso e la prospettiva di un matrimonio a corte per risollevare le sorti della guerra.

L'Orsini aveva tutta l'intenzione di battere il ferro finché era caldo, sfruttando al massimo la palese mancanza di coordinazione dei napoletani, ma una sera, sul finire di quel marzo, appena dopo aver consumato la sua razione, il mercenario cominciò a sentirsi poco bene.

Una febbre che nemmeno il cerusico seppe inquadrare lo costrinse a letto per giorni e Virginio finì per imputare quel crollo improvviso alla vecchiaia che avanzava.

Scrisse a sua sorella Bartolomea, per informarla della sua momentanea difficoltà, ma già quando giunse la risposta da Bracciano, con cui la donna tentava di rinfrancarlo con parole di incoraggiamento, Virginio si sentiva meglio.

Il cognato Bartolomeo d'Alviano si consultò con lui sulla mosse future e Virginio, vedendo il suo fronte abbastanza tranquillo e non sentendosi sufficientemente in forze per guidare una nuova campagna, lo pregò di congiungersi con Paolo Orsini e dare manforte a lui.

"Io me la caverò egregiamente, come sempre." scherzò Virginio, arricciandosi con fare ammiccante i lunghi baffetti.

Appena Bartolomeo aveva lasciato il campo, arrivò una strana proposta da parte, niente meno, che di Ferrandino d'Aragona.

L'Orsini, che aveva lasciato la sua cuccetta con grande riluttanza, ascoltò con attenzione quello che il messo napoletano aveva da dire.

Si trattava della proposta di una battaglia a viso aperto, senza assedi né imboscate. Uno scontro su campo concordato, un'unica azione che avrebbe deciso quale parte avrebbe vinto la guerra.

Virginio, ancora acciaccato e con le ossa che friggevano per la febbre passata da poco, venne tentato dall'idea di chiudere la sua campagna con una trionfale battaglia campale, ma poi si ricordò di Francesco Gonzaga e della sua tragica Fornovo.

A credere di essere troppo bravo sul campo, avrebbe potuto fare la sua stessa ingloriosa fine.

Che se ne sarebbe fatto di una vittoria sulla carta, se poi, di fatto, fosse stato in qualche modo umiliato dal suo nemico?

Non era giovane come il Gonzaga, non era altrettanto tracotante. Non sarebbe mai riuscito a fare la faccia di bronzo, vantandosi per quella che in realtà era una mezza sconfitta. Non voleva chiudere la sua carriera con uno sfacelo.

E poi si sentiva ancora troppo insicuro e indebolito. Non avrebbe sopportato l'idea di starsene nelle retrovie mentre i suoi combattevano. Però sapeva anche che, nelle sue condizioni, se avesse voluto prendere parte attiva a una battaglia di quel tipo, non sarebbe sopravvissuto nemmeno all'ingaggio iniziale.

Perciò, sorridendo cordialmente al messo di Ferrandino, si strinse nelle spalle e disse: "Non ho intenzione di accettare." e fece uscire abbastanza di malagrazia l'uomo dal suo padiglione.

Una volta rimasto solo, Virginio cominciò a rimuginare.

Un tuono roco e non troppo lontano gli annunciò che anche quel giorno una noiosissima tempesta di fulmini si stava avvicinando e tanto gli bastò per sentire di nuovo i brividi della febbre avvicinarsi.

Di quel passo sarebbe morto di inedia. Doveva pur fare qualcosa. Anche se non avrebbe retto a uno scontro diretto, poteva almeno impegnarsi in qualche spostamento strategico.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Tahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon