Capitolo 261: ...e io etterno duro.

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Ottaviano aveva la schiena madida di sudore e i suoi occhi saettavano senza sosta dalle due guardie che presidiavano la porta della stanza e il fratello Cesare, che, stringendo al petto il crocifisso, sciorinava una preghiera dopo l'altra, con una cantilena più simile al delirio di un pazzo che non alla litania di un prete.

Quando si sentirono dei passi frettolosi provenire dall'ingresso, i due Riario si avvicinarono l'uno all'altro e si prepararono a essere presi di peso e portati dalla madre.

Tuttavia, il soldato che era arrivato in casa di Paolo Denti non pareva troppo interessato ad avventarsi su di loro. Anzi, parlottò un momento con le due guardie, occhieggiando incredulo verso i due ragazzi e poi allargò le braccia, scuotendo il capo con visibile disappunto.

Allora i due che stavano sulla porta risposero con gesti simili e poi uno di loro si voltò verso Ottaviano e Cesare e annunciò: "A quanto pare vostra madre preferisce che restiate qui, per il momento. Non sembra intenzionata ad arrestarvi."

E così dicendo, le due guardie si accodarono al soldato che era andato a riferire gli ordini e lasciarono la casa di Denti senza aggiungere altro.

Ottaviano si sentì mancare, tanto era il momentaneo sollievo dato da quella notizia. Si aggrappò a un mobile, le gambe malferme, e cercò di controllare il più possibile il respiro, che si era fatto affannoso.

Era certo che non sarebbe finita lì, che sua madre avrebbe trovato il modo di punirlo, magari stava ragionando proprio in quei minuti su come fargli patire almeno la metà del dolore che stava provando lei, ma almeno il Conte sapeva che non sarebbe morto prima di veder sorgere una nuova alba.

Cesare aveva reagito in modo più teatrale, gettandosi in ginocchio e ringraziando Dio a voce alta per la sua immensa misericordia, pregandolo di aiutare sua madre la Contessa in quelle ore di difficoltà.

Ottaviano, rinfrancato dalla consapevolezza che la sua vita non sarebbe finita quella notte, si ridiede in fretta un tono e, affacciandosi sulla porta, ordinò: "Denti! Denti! Portate a me e a mio fratello qualcosa da mangiare e del vino!"


 Quando calò la notte i corpi di Don Domenico e Gian Antonio Ghetti vennero staccati dal gancio a cui erano rimasti appesi fino a quel momento e vennero portati al ponte dei Moratini.

Sotto gli ordini secchi di Mongardini, i due cadaveri vennero infilati su delle alabarde e sistemati con gran cura a lato del letto del Montone, lambiti dalle acque, ma non abbastanza addentro al fiume da poter essere trascinati via dalla corrente.

Il Capitano volle poi che le teste dei due morti venissero staccate dai rispettivi colli, e le fece sistemare su due picche, dando ordine che venissero esposte sulla Torre del Pubblico, affinché tutta Forlì potesse vederle.

Nel frattempo, in città continuavano le perquisizioni, le requisizioni e gli arresti. Tra i ricercati maggiori vi era anche Pietro Brocchi, che, a quanto pareva, aveva fornito le corde a Bernardino Ghetti permettendogli così di calarsi dalle mura della città senza rischiare la vita.

L'uomo, però, non si trovava da nessuna parte e così l'Auditore acconsentì alla richiesta dei soldati di metterne a sacco la casa.

Poi fu il turno di due nipoti di Giacomo Delle Selle che, quando vennero trovati nascosti in una dispensa, gridarono improperi tanto contro la Contessa quanto contro il Conte e così vennero subito portati alla rocca e buttati in mezzo agli altri prigionieri.


 Tra le carte di Caglianello, castellano della rocchetta di Porta Schiavonia, erano state trovate parecchie lettere del Cardinale Sansoni Riario.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now