Capitolo 393: Ci vuole pazienza

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Firenze aveva accolto l'arrivo della Pasqua, quel 15 aprile, con uno spirito diverso dagli anni precedenti.

La notizia della morte del re di Francia aveva dapprima scosso nelle fondamenta i membri della Signoria, per poi lasciarli quasi indifferenti, dopodiché vagamente speranzosi e alla fine, contro ogni previsione, decisamente soddisfatti.

Il successore, si sapeva, sarebbe stato il Duca d'Orléans e i membri della Signoria più addentro agli affari esteri sostenevano che quello fosse un bene, per Firenze. Re Carlo, nel tempo e soprattutto durante la sua discesa in Italia, aveva dimostrato troppa affezione per Savonarola, accettando perfino di incontrarlo a Poggibonsi, mentre Luigi pareva di tutt'altro avviso.

L'opinione pubblica, però, quel santo giorno venne sviata da un altro fatto, molto più personale e misterioso.

Senza che nessuno s'avvedesse di come fosse iniziato e di chi l'avesse appiccato, un incendio era scoppiato alle Murate. Uno dopo l'altro, molti refettori erano stati presi dalle fiamme e tutto quanto era andato in cenere prima che fosse sera.

Nessuno, né i Compagnacci né tanto meno i Piagnoni avrebbe avuto motivo di sferrare un simile insensato attacco e dunque si andò a pensare alla fatalità, al gesto di un pazzo o, ancora, a un segno divino.

Per certi, era una sorta di punizione per la cattura del domenicano. Per altri, per la maggior parte, anzi, era stata una chiara indicazione divina circa le precise modalità con cui punire l'eretico frate.


Caterina si strinse un po' nelle spalle, dopo aver salutato il Capitano Rossetti che, assieme a un paio di reclute, raggiungeva il nuovo mastio.

Non era ancora del tutto ultimato, ma ormai veniva già utilizzato e la Contessa aveva dato ordine che vi si portassero un po' di armi, in modo tale da poter essere usato anche come struttura di difesa attiva in caso di attacco improvviso.

Stava camminando rapida, le braccia incrociate sul petto e la mente altrove. Stava cercando Giovanni, ma in realtà senza chiedersi dove fosse realmente in quel momento.

Aveva appena lasciato la stanza delle balie, dove due donne e Bianca si stavano prendendo cura di Ludovico. In realtà non aveva voglia di separarsi dal suo figlio più piccolo, ma c'era stato un episodio che le aveva fatto sentire il bisogno di prendersi un momento.

Lei era seduta in poltrona, gli occhi persi nelle fiamme del camino, mentre sua figlia si stava facendo spiegare per l'ennesima volta come cambiare il piccolo. Anche se le balie le avevano spiegato in tutti i modi che quel genere di incombenze sarebbero toccate, un giorno, alle sue serve e non a lei, Bianca aveva insistito e così le due si erano improvvisate maestre.

Caterina sapeva che sua figlia si era fatta insegnare molte cose, nel corso degli anni. Dalle cuoche, per esempio, aveva imparato a preparare molte pietanze, e poi era diventata discreta non solo nel ricamo, ma anche nel rammendo, che era un'attività decisamente poco consona, per la figlia di un Conte.

La Tigre, però, non aveva mai messo becco in questo suo desiderio di apprendere. L'incertezza politica che li attorniava costantemente faceva sì che fosse un bene che Bianca sapesse cavarsela da sola il più possibile.

Se, per assurdo, avesse dovuto condurre una vita da popolana, non avrebbe avuto alcun problema.

Quando la ragazza e le balie avevano finito di sistemare Ludovico, Bianca aveva voluto tenerlo in braccio per un po'. Gli sussurrava parole dolci e filastrocche nelle orecchie e il neonato sembrava gradire molto.

La madre osservava in silenzio, fondamentalmente sollevata nel vedere la figlia tanto amorevole con il nuovo fratellino. Poi, però, Bianca aveva detto una frase che aveva fatto drizzare per bene le orecchie della Leonessa.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now