Capitolo 338: Il Falò delle Vanità

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Le voci bianche dei bambini di Firenze riempivano ancora l'aria, riecheggiando dalla loggia che stava accanto al palazzo della Signoria.

La folla, assiepata all'inverosimile nella luce calante del giorno che era ormai digradato nella sera, aveva lasciato un corridoio per permettere a tutti quelli che desideravano farlo di raggiungere il falò, che ancora non era stato acceso.

I seguaci di Savonarola, forti dell'autorità che si erano presi da soli, avevano passato la giornata a requisire, di casa in casa, tutto ciò che potesse essere considerato simbolo di vanità. Erano stati poi i bambini a portare personalmente tutte quelle cose in piazza.

Come se non bastasse, molti fedeli, preda dei sensi di colpa e della smania di assecondare il gregge, avevano cominciato a consegnare spontaneamente i propri averi, andando a ingrossare la piramide, grossa quindici metri per venti, che troneggiava nella piazza.

I fiorentini, guidati costantemente dal profilo affilato e severo del domenicano, avevano consegnato come pegno a Dio non solo ciò che poteva dirsi prettamente artistico, ma anche tutta una serie di oggetti che avevano fatto grandi le feste e la vita quotidiana di Firenze fino a quella sera.

Abiti sfarzosi, specchi, ghironde, gioielli, soprammobili preziosi, copie del Morgante di Pucci, volumi già sbrindellati rabbiosamente del Decameron di Boccaccio, boccette di profumo, cappelli, i libri di Dante, carte da gioco, dadi, liuti, le raccolte di poesie di Petrarca, tavole da gioco e finanche testi di canzoni ritenute immorali appositamente ricopiati solo per poter essere dati al fuoco: tutto quanto si stava accatastando senza sosta, mescolandosi a quadri, disegni e statue.

Ignorando ottusamente tutti quelli che lo fissavano e anche le chiacchiere vuote di alcuni stranieri capitati lì per caso – uno tra tutti, un mercante veneziano che aveva appena fatto una stima a occhio di tutti i libri abbandonati sulla pira, sostenendo che a venderli ne avrebbe ricavato almeno ventimila ducati – Sandro Botticelli percorse lo stretto corridoio portando sotto braccio un grosso blocco di fogli, pergamene e tele.

Con uno slancio molto suggestivo, quasi scoppiando in lacrime, l'artista gettò alla rinfusa la sua serie di dipinti e schizzi, frutto delle fatiche di anni. Erano quasi tutti a tema mitologico, espressione di paganesimo, senza il minimo pudore o senso cristiano. Molti dei soggetti erano nudi, molti altri erano intenti in atteggiamenti che andavano contro la morale. Tutto andava distrutto.

Ricacciando indietro il pianto che voleva ribellarsi a quella privazione, Botticelli voltò le spalle alla piramide e tornò a mescolarsi con la folla.

Ormai il cielo era scuro e nella piazza la gente cominciava a rumoreggiare. I bambini avevano finito i loro canti e i preti le loro invocazioni. A un preciso segnale convenuto, quattro uomini arrivarono con delle torce accese e appiccarono il fuoco ai quattro angoli della pira.

In un secondo, come se l'arte fosse il naturale nutrimento delle fiamme, il falò prese ad ardere nella notte come una stella dalla luminosità insostenibile.

Non appena anche l'apice della piramide s'infiammò, un urlo di gioia liberatoria si diffuse per tutta la piazza, riempiendo ogni strada di Firenze, facendola quasi tremare fin nelle fondamenta.

Anche dalle finestre che si affacciavano in piazza molte donne esultavano e invocavano il perdono divino, mentre i religiosi, dispersi ormai in mezzo agli altri fedeli, riprendevano a intonare i loro canti, tessendo le lodi di Dio e della sua magnanimità.

Botticelli, rapito dal bagliore delle fiamme, per qualche momento non pensò ad altro che alla propria anima, dilaniato dal dubbio e dal senso di colpa. Solo dopo un po', risvegliato da un involontario spintone datogli da un Piagnone, l'uomo si rese conto di una cosa.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora