Capitolo 319: ...che è vento ed ombra ed à nome beltade.

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Bianca Giovanna si portò un momento una mano alla pancia, assumendo un'espressione dolorante, a poi tornò a mangiare quello che aveva ancora nel piatto.

Beatrice, che le stava accanto, aveva notato quel suo gesto e così, con apprensione le chiese: "Va tutto bene? Sei pallida..."

La figlia del Moro deglutì e finì il calice di vino: "Bene, non abbiate timore. Solo i miei consueti dolori di pancia, adesso mi passeranno. Mi passano sempre. È da mesi, ormai, che è così."

La Duchessa non aggiunse altro e, anche se continuò a chiacchierare con gli altri commensali, rispondendo volentieri a tutte le domande riguardanti il suo parto ormai imminente, non perse mai di vista la sua amica.

La giovane Sforza era a Milano da pochi giorni e Ludovico aveva preteso che lei e il marito Galeazzo Sanseverino cenassero o pranzassero praticamente ogni giorno al palazzo di Porta Giovia.

I due avevano accettato molto volentieri e si erano anche portati appresso parte dei propri servitori, per gravare meno su quelli dei Duchi.

Anche mentre Beatrice rideva di gusto a una battuta che si erano scambiati il Moro e suo genero, erano i domestici che i due ospiti si erano portati da Bobbio a servire in tavola.

"Poco, poco, grazie..." sussurrò Bianca Giovanna, mentre il servo offerto dai Dal Verme le versava dell'altro vino del bicchiere.

La giovane lasciò correre in gola un sorso e poi un altro. Anche adesso che era nella casa di suo padre, le parve che il vino si fosse fatto più amaro. Non era più quello dolce e corroborante che ricordava di aver bevuto migliaia di volte, prima di sposarsi.

Pensando che, forse, crescendo certi sapori perdessero il loro reale fascino, Bianca Giovanna non ne fece parola con nessuno e finì anche quel calice, facendosene versare un secondo e poi un terzo, sperando che il vino le desse quel pizzico di incoscienza di sé sufficiente a dimenticarsi del mal di pancia.


Caterina stava aspettando Tommaso nello studiolo del castellano. La sera era ormai scesa su Ravaldino e una spessa coltre di nebbia aveva avvolto l'intera città come il bozzolo di un baco da seta.

Suo cognato le aveva ribadito la sua necessità di parlarle, quel pomeriggio, e aveva anche aggiunto che intendeva ripartire per Imola il prima possibile. Quando lei aveva provato a convincerlo a restare anche per il Natale e il Capodanno, Tommaso aveva categoricamente rifiutato, dicendo che preferiva andarsene e che dunque era tempo che gli concedesse quell'incontro.

"Grazie per avermi ricevuto." disse piano il Governatore di Imola, quando arrivò allo studiolo.

La Contessa fece un cenno con il capo e lo invitò a sedersi dietro alla scrivania, su quello che era stata per tanto tempo il suo scranno.

Un po' impacciato, Tommaso accettò e si sistemò con calma sulla sua vecchia sedia. Quella sera indossava un abito scuro, abbastanza elegante, che Caterina non ricordava di avergli visto indosso altre volte.

Anzi, ora che ci faceva caso, si stava rendendo conto di come nelle ultime settimane non avesse prestato la minima attenzione all'abbigliamento di suo cognato. Dunque poteva essere che si sbagliasse, nel ritenere quelle brache di lana e quel giaccone di raso nuovi.

"Di cosa volevate parlarmi?" chiese la donna, appoggiandosi al davanzale della finestra con la schiena e fissandolo.

Tommaso deglutì un paio di volte, passò le mani sulla superficie irregolare della scrivania e infine sulle cosce, come se volesse asciugarsi il sudore.

"Io sono stanco, mia signora." disse, alla fine, con un'alzata di sopracciglia e un lieve scuotere di capo, come se non trovasse parole migliori: "Non ho più le capacità e la testa per essere un buon Governatore di Imola. Vi ringrazio per tutta la fiducia che mi avete dimostrato in questi anni, in ogni frangente e malgrado tutto, ma io non ce la faccio più."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora