Capitolo 416: Semel emissus, volat irrevocabile verbum

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"Quella Caterina Sforza?!" aveva chiesto il messo della Signoria, leggendo preventivamente gli incartamenti portati da Giovanni.

"Sì, quella." aveva risposto secco il Medici, irritato dal tono sconcertato e incredulo dell'altro fiorentino.

Questi l'aveva guardato di sotto in su, puntellandosi perfino sul bancone su cui aveva appoggiato i fogli e poi, tra l'ammirato e contrariato, aveva commentato a denti stretti: "Se è vero che è vostra moglie... Vi auguro una buona fortuna."

Il Popolano stava ancora pensando alle parole di quell'uomo e anche allo sguardo che il Gonfaloniere in persona gli aveva dedicato quando aveva capito di che trattava la sua richiesta.

Ripercorrendo la Via Larga assieme al suo seguito, Giovanni stava attirando non pochi sguardi. A Firenze si stavano accorgendo del suo ritorno solo quel mattino. Lo avevano riconosciuto, eppure, l'uomo ne era certo, lo fissavano tutti come se lo trovassero molto cambiato.

Desideroso di andarsene in fretta, guidò i suoi fino all'ingresso del palazzo di famiglia e attese che la cognata e i nipoti arrivassero a salutarlo.

Strinse Pierfrancesco e Vincenzo con forza, raccomandando loro di fare i bravi e di rendere orgogliosi i loro genitori, poi dedicò un abbraccio a ciascuna delle due nipoti, alle quali diede anche un bacio sulla fronte, accompagnato da qualche buona parola.

Quando rimase solo Semiramide, la guardò un momento, il sorriso triste che si spegneva in un'espressione cupa: "Lui non scende?" le chiese.

La donna fece appena segno di no con il capo. Faceva già molta fatica a trattenere le lacrime, all'idea che il cognato se ne stesse andando di nuovo, e proprio non se la sentiva di parlare di Lorenzo.

Aveva cercato in tutti i modi, mentre Giovanni era alla Signoria, a convincerlo a riappacificarsi con il fratello, a non lasciarlo andare in guerra con quella ferita aperta. E invece il marito, ostinato e fermo nelle sue posizioni, le aveva detto a male parole di tacere e si era chiuso nello studiolo.

Con un sospiro pesante, il Popolano più giovane inghiottì quell'amaro boccone, il cuore che correva nel petto come se glielo volessero strappare e, prima di scoppiare a piangere per la frustrazione e la rabbia, strinse tra le braccia la cognata.

I due rimasero vicini per un bel po', lasciando che quella stretta dicesse tutto quello che il nodo alla gola impediva loro di esprimere a voce e poi si riallontanarono.

Semiramide gli accarezzò lentamente la guancia coperta di barba riccia e, guardandolo negli occhi, riuscì solo a dirgli: "Mi mancherai."

Il Medici fece un cenno con il capo, per dire che per lui era la stessa cosa, e poi tornò verso il cavallo.

Era appena salito in sella, quando un movimento dietro a un tendaggio ai piani alti attirò il suo sguardo. Vide alla finestra il viso tirato e smunto di Lorenzo e per qualche istante i loro sguardi si incrociarono.

"Mio signore..." fece Corradini, avvicinando la sua bestia a quella del Medici, guardando anche lui in alto e intuendo la tensione tra i due fratelli: "Per caso volete... Insomma, anche se ritardiamo di qualche minuto non..."

Giovanni lanciò un'ultima occhiata penetrante a Lorenzo, e poi, imponendosi di essere forte, abbassò la testa e disse: "No."

Diede di speroni al cavallo, salutò ancora una volta la cognata e i nipoti con la mano e poi voltò la cavalcatura, seguito dai suoi uomini.

Attraversarono parte di Firenze, passando sull'Arno con lentezza, come il Popolano aveva chiesto di fare, per poter salutare il fiume che aveva visto tante volte al tramonto, riposando sulle sue rive, e altrettante all'alba, dopo qualche notte passata fuori dal palazzo a fare il ribelle.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now