Capitolo 398: 23 maggio 1498

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Ludovico Sforza sorrise in modo un po' stentato, guardando il viso barbuto e ancora impolverato di Francesco Gonzaga.

C'erano volte in cui proprio non capiva la poca cura che gli uomini d'arme avevano per il proprio aspetto. Gonzaga era un Marchese, a colloquio con un Duca. Eppure pareva di vedere un bracciante intento a discorrere della decima con un fittavolo.

"Questa è la mia offerta." ribadì il Moro, allargando le braccia, mostrando i palmi delle grandi mani.

Francesco non poté evitare di pensare tra sé a come le mani dello Sforza fossero più adatte a un arzatore che non a un Duca. Tutto, in quell'uomo, gridava campagna, secondo lui. Aveva una terra ricca e raffinata come il Ducato di Milano, eppure continuava a correre in chiesa a pregare per la moglie morte o nei campi a vedere come veniva su i suoi gelsi.

Per il Gonzaga, Ludovico restava un grande mistero.

"Trentamila ducati l'anno." sottolineò Bartolomeo Calco, seduto al banchetto lì accanto, la penna in mano e gli occhi fissi sul mantovano, quasi a volerlo convincere con il solo potere dello sguardo.

"Non è poco." convenne Francesco, con un mezzo inchino.

Se solo Isabella avesse accettato di accompagnarlo a Milano, il Marchese ne era certo, il Moro avrebbe proposto un'offerta più alta. Tutti sapevano che il Duca aveva da sempre un debole per la cognata. E poi, anche di questo Francesco era certo, Isabella avrebbe saputo fingere meglio.

Quando il Duca gli aveva chiesto se fosse vero che tutti i ponti con Venezia erano stati tagliati, il mantovano non era stato capace di trattenere un fremito nell'assicurare che era così. Gli sembrava quasi che gli si potesse leggere in fronte che, invece, aveva passato giorni interi a scrivere lunghissime lettere per il Doge e che Barbarigo si fosse preso il disturbo di rispondergli, cedendo alla fine e lasciandogli uno spiraglio di speranza.

"Dunque? Avanti, cognato..." soffiò Ludovico, sistemandosi sullo scranno, una mano sul pancione abbondante e una sul bracciolo: "Sappiamo che siete senza ingaggi. Volete che vostra moglie diventi lo zimbello d'Italia? La donna più elegante della penisola costretta a indossare lo stesso abito per due volte consecutive?"

La risata, grassa ed eccessiva del Duca, diede molto fastidio al Marchese che, inginocchiatosi, mise da parte l'orgoglio e disse: "Accetto di buonagrazia la vostra offerta."

"Oh! E ci voleva tanto?" esclamò allora Ludovico, alzandosi e facendo rialzare anche il suo ospite.

Disse a Calco di preparare al più presto i documenti e poi si rivolse al mantovano: "Adesso resterete alla mia corte almeno fino all'inizio di giugno, ve ne prego. Il rischio di qualche epidemia è troppo alto, non mi fido a lasciarvi andare per strada..."

Francesco, tentato di rifiutare, ricordò le parole secche e precise che la moglie gli aveva detto prima di lasciarlo partire: "Qualsiasi offerta di gentilezza, tu prendila. Guai a te se l'offendi solo perché sei stanco di qualche banchetto."

Così il Marchese sorrise e accettò. Accettò pure quando il Moro, con fare apparentemente casuale, dopo avergli chiesto come stesse Isabella, gli domandò il favore di ricambiare l'ospitalità lasciandolo tornare con lui a Mantova in giugno.

"A tal modo – precisò il milanese – vi farò avere subito diecimila ducati per coprire i primi debiti, e poi potrò finalmente rivedere la vostra adorata moglie. Isabella e io andavamo molto d'accordo, sapete?"

Il Gonzaga ingoiò un bel po' di bile e poi, con un'espressione che di certo doveva apparire stolida, annuì e confermò: "Sì, so che avete gusti simili. In fatto d'arte."

Caterina era appoggiata al davanzale della finestra e guardava giù, verso il figlio che, nel cortile d'addestramento, stava facendo pratica con il cavallo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now