Capitolo 424: Tristis eris si solus eris

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Buti era caduta dopo due giorni di assedio e bombardamenti di ogni sorta. Con quattordici cannoni e cinquanta falconetti, Paolo Vitelli aveva sfinito i nemici e aveva fatto anche un gran bottino.

A Firenze si viveva un'aria più distesa, come se i prigionieri arrivati dal fronte fossero la prova tangibile della vittoria sempre più vicina e semplice.

Tra i soldati arrivati in catene c'erano sei bombardieri pisani, ai quali vennero tagliate le mani, per essere poi rispediti, con la macabra testimonianza dell'amputazione appesa al collo, a Pisa come monito.

Lorenzo Medici, quel giorno, era di pessimo umore, in netto contrasto con i suoi concittadini che, invece, erano accorsi in piazza per assistere alla condanna a morte degli altri trentatré prigionieri.

In tutte le armerie di Firenze si stavano costruendo spingarde da mandare al fronte e il clima generale di euforia cozzava nettamente con la mestizia dello spettacolo che si stava apparecchiando davanti al palazzo della Signoria.

Il Popolano, che era fiancheggiato da alcuni suoi uomini di fiducia, si era vestito di scuro e se ne stava un po' in disparte.

Osservò le impiccagioni una dopo l'altra, senza mai distogliere lo sguardo e contò precisamente trentatrè condannati, tra i quali c'erano anche dei ragazzini, o meglio, dei bambini.

Quando la folla cominciò a diradarsi, il Medici finalmente abbassò gli occhi tondi e si chiese che razza di Repubblica fosse quella che si vantava di aver catturato dei mocciosi e di averli appesi per il collo.

Tutto quanto andava all'incontrario, per il suo modo di vedere. E, mentre voltava i tacchi per tornarsene a casa, vide Machiavelli entrare quasi di corsa al palazzo della Signoria, uno spesso plico sotto al braccio e il ciuffo di ricci ribelli in piedi in mezzo alla testa.

Che uno del genere fosse Segretario, pensò Lorenzo, scalciando un sasso che aveva davanti a sé, era la prova più schiacciante della direzione scorretta presa da Firenze.

"Meglio andare, adesso..." gli disse uno dei suoi, avvicinandolo: "Se volete fare in tempo a discutere con il notaio per la questione della villa di Castello..."

"Certo, certo..." sussurrò il Medici, iniziando a camminare verso casa.

Sì, il mondo andava al contrario. Suo fratello era in Romagna, stava male e non aveva voluto essere portato a Firenze. E adesso a Lorenzo toccava anche cercare un cavillo legale per mettere al sicuro i beni di Giovanni, in modo che quella sgualdrina della Tigre di Forlì non gli rubasse tutto quanto, dopo averlo ucciso.

Sapeva che Semiramide aveva scritto ad alcuni dottori, pregandoli di andare subito in Romagna da lui, per curarlo. Nessuno di loro, però, aveva accettato un simile viaggio, tanto meno per cercare di curare un male incurabile, e addirittura uno, memore forse della fine fatta dal medico del Magnifico, aveva risposto dicendo che aveva a cuore la pellaccia sua più di quella di un povero gottoso.


Caterina stava leggendo una novella di Boccaccio con voce bassa e lenta, sperando di conciliare il sonno del marito.

Di notte, Giovanni non riusciva quasi mai a riposare e solo di giorno i suoi dolori sembravano dargli un po' di tregua anche se, dopo un paio d'ore in cui dormiva apparentemente tranquillo, si risvegliava sempre di colpo, a volte per gli incubi e a volte per il male.

Le aveva confessato che, da quando era stato in battaglia, gli capitava spesso di rivivere in sogno quei momenti e ancora non riusciva a capire se avesse ucciso o meno dei nemici. La Sforza non aveva capito, almeno all'inizio, quanto questo dubbio pesasse sulla sua anima e aveva commentato dicendo che non era una cosa così importante, l'importante, in quel caso, era aver vinto.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora