Capitolo 281: Ell'è tanto utile cosa questa pace!

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"I veneziani prenderanno un paese alla volta." decretò Francesco Numai, che, in qualità di testimone oculare della forza di Giacomaccio, era stato ammesso a pieno titolo nel Consiglio degli Anziani di quel giorno.

"Sì, ma li ridaranno all'Arcivescovo!" fece notare l'Oliva, che ne aveva avuta certa notizia dalle sue spie: "Non vogliono che il papa se l'abbia a male con loro. Non hanno ancora capito se il Santo Padre li perdonerebbe, in caso di conquista forzosa..."

Ci fu un gran vociare tra i presenti, tanto che per poco il cancelliere Cardella non fu tentato di riportare l'ordine battendo la mano sul tavolo.

Caterina ascoltava i membri del Consiglio con un certo distacco. Sapeva che richiamare tutte le sue truppe in città avrebbe permesso ai veneziani di prendersi tutto quello che lei aveva conquistato, ma il fatto che gli uomini della Serenissima volessero restituire tutto al papa mitigava in un certo senso la sua disfatta.

A conti fatti, Alessandro VI avrebbe ridistribuito le terre contese, estromettendola quasi per certo, ma almeno la Contessa si era tolta di mezzo un po' di gente che le stava scomoda, come il Conte Guerra, e ne aveva ridimensionati altri che avrebbero potuto farsi pericolosi, come Pandolfo Malatesta.

Certo, probabilmente il Consiglio degli Anziani l'avrebbe pensata diversamente. Siccome la decisione di non opporre altre resistenze a Venezia era stata presa, non le restava che attendere la reazione dei suoi sudditi.

Pur fingendosi molto interessata a quello che veniva detto, Caterina passò tutto il tempo della discussione immersa nei suoi pensieri più privati, tanto che, a un certo punto, si trovò così assorta da essersi quasi dimenticata di quello che si stava valutando.

A mordere la sua coscienza era soprattutto quello che le era capitato quella mattina, prima di andare a presiedere il Consiglio.

Approfittando del fatto che doveva uscire dalla rocca per andare al palazzo, aveva preso una strada lunga, vagando un po' per la città che si risvegliava, come non faceva da troppo tempo.

I suoi passi l'avevano portata alla chiesa di San Girolamo, dove era sepolto Giacomo. Era passata varie volte davanti al portone centrale, senza mai risolversi a entrare.

Il freddo di fine dicembre le era entrato nelle ossa, mentre sfuggiva da se stessa e dai propri fantasmi e alla fine, sentendosi una codarda, aveva voltato le spalle alla chiesa, motivando quel gesto con una scusa che lei per prima trovava molto labile.

Si era detta, con umiliante semplicità, di non voler andare sulla tomba del marito quando ancora si sentiva addosso l'odore di un altro uomo.

Quella notte aveva ancora una volta cercato, in un amante scelto per caso, una traccia di ciò che c'era stato con Giacomo, e come sempre ne era rimasta delusa.

Di solito riusciva a dimenticare in fretta, archiviando le sue avventure notturne come un semplice passatempo, come se in realtà non la riguardassero, mentre quella mattina, quando si era trovata davanti alla chiesa in cui era custodito il corpo di Giacomo, si era sentita una traditrice.

"Ed è per questo – stava sentenziando con tono altisonante Luffo Numai, che si era evidentemente fatto carico di concludere a nome di tutti – che riteniamo che le azioni militari condotte in queste settimane non siano state né una perdita di tempo, né una spesa inutile."

Quell'affermazione strappò la Contessa dai suoi tormenti interiori.

"Con questo genere di azioni – continuò Luffo, scoccando alla sua signora un'occhiata di intesa che Caterina faticò in un primo momento a interpretare – si ravvivano gli antichi diritti dei signori della città, si dà aiuto agli amici e si addestrano le truppe, rendendole pazienti alle fatiche militari. E quindi il Consiglio non solo non condanna i fatti degli ultimi tempi, ma concede anche di usare le mille lire, prese dalle pubbliche casse, richieste dalla Contessa per l'acquisto di nuove armi."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now