Capitolo 435: Impudenter certa negantibus difficilior venia

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"Il messo veneziano vi attende." disse a voce bassa Luffo Numai, raggiungendo la Tigre mentre era a tavola.

La donna si asciugò le labbra con il dorso della mano ed esclamò: "Passano gli anni, ma gli uomini del Doge restano come li ho conosciuti la prima volta: arroganti e fastidiosi. Quale buon ospite arriverebbe all'ora del pranzo?"

Il Consigliere non rispose, allargando appena le braccia, in segno d'accordo con la sua signora.

Era passato qualche giorno da quando era giunta la notizia del richiamo frettoloso che Gonzaga aveva fatto ai suoi balestrieri, ma la Contessa era abbastanza sicura di avere ancora tutto sotto il suo controllo.

Non aveva avuto più lettere da Simone Ridolfi, benché gli avesse scritto già due volte, per chiedergli ragguagli sulla situazione, ma immaginava che l'uomo fosse molto preso e ancora provato dalla notizia della morte di Giovanni e così per il momento soprassedeva sul suo ritardo.

Dopo aver fatto un cenno a Galeazzo, Bianca, e al Capitano Mongardini, che stavano mangiando assieme a lei, la Sforza andò a passo di marcia verso l'esterno della rocca. Aveva deciso di vedere tutti i portavoce stranieri lontano da Ravaldino, al palazzo dei Riario. Forse non era più sicuro, ma di certo permetteva agli ospiti di scorgere meno dettagli della sua dimora.

Prima di tutto, avrebbero potuto vedere coi propri occhi le armi e il numero di guardie che aveva messo alla protezione della sua famiglia, e poi avrebbero anche potuto cogliere informazioni ancora più importanti e facili da travisare. In quei giorni, infatti, Giovan Francesco Sanseverino e Giovanni da Casale dimoravano alla rocca e la presenza di due uomini di quella levatura avrebbe potuto sollevare quanto meno qualche domanda.

Caterina sapeva bene che fama aleggiasse su di lei ed era certa che quei due uomini sarebbero stati subito additati come i suoi nuovi amanti. E se da un lato l'idea di dividere il letto con il Sanseverino le faceva venir voglia di ridire, per quanto era assurda, dall'altro, il pensiero di fare altrettanto con Pirovano non era poi così ridicola, ai suoi occhi.

Dunque, meglio evitare pettegolezzi, soprattutto perché non era ancora successo nulla di cui sparlare.

In realtà, dopo il ragazzo che aveva fatto arrivare dal postribolo, non aveva più cercato nessuno e, sperava, avrebbe resistito ancora un po' prima di farlo di nuovo.

Mentre camminava a marce forzate verso il palazzo si ripeteva mentalmente tutto quello che sapeva circa le forze veneziani, e non poteva dimenticare che da pochissimo anche Bartolomeo d'Alviano – uomo da lei conosciuto come ottimo comandante – e Paolo Orsini fossero passati stabilmente al soldo del Doge.

Anzi, a voler essere precisi, le era stato riferito che accanto ai due cavalcasse anche Giuliano Medici, figlio del Magnifico e fratello del Fatuo.

Quando arrivò al palazzo, la donna trovò il veneziano in piedi, in attesa nel centro della sala delle questue, come un comune suddito. Anche quella, sapeva, era parte dell'arte dei Serenissimi: mostrarsi umili, quando di umile non avevano nemmeno le pezze ai piedi.

Seduti al loro posto c'erano già il suo cancelliere, pronto a prendere nota di tutto, e un paio di Consiglieri fidati.

"Prego, di cosa siete venuto a parlarmi?" chiese Caterina, andandosi a mettere sul suo scranno, come quando doveva ascoltare qualche bega di paese.

Il messo fece un inchino profondissimo: "Innanzi tutto voglio farvi i miei sentiti complimenti per l'opulenza e la meraviglia di questa città e della signora vostra. Mai vidi luogo più florido o donna più affascinante e riccamente vestita."

La Tigre si guardò distrattamente. Quel giorno indossava l'abito un po' usurato che metteva quando si addestrava con la spada, aveva i capelli sciolti e non portava quasi gioielli, a parte il nodo nuziale e una collana.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now