Capitolo 446: Campane a martello

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Nelle narici sentiva l'odore pungente dell'incenso e quello più familiare, ma altrettanto forte, del bosco. Era un insieme assurdo, che si mescolava con il buio che le velava gli occhi.

Si rendeva conto che qualcosa non quadrava, eppure non riusciva a trovare un senso logico a quello che le stava davanti. Quando, finalmente, riuscì a vedere in modo nitido quello che aveva davanti, riconobbe il corpo tumefatto e gonfio di Giovanni, riverso nel letto che aveva occupato nelle sue ultime ore di vita.

La stanza buia si stava facendo sempre più fredda, e Caterina cercava di dire a voce alta il nome del marito, anche se, ogni volta che ci provava, quelle poche lettere le morivano in gola, senza riuscire nemmeno a sfiorarle le labbra.

Si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi nella penombra della sua camera da letto, stretta tra braccia forti che non riconobbe subito.

A rilento, come se fosse appena riemersa da un abisso, le tornarono in mente le cose successe la sera prima e poi quella notte, prima che si addormentasse, e ricordò chi fosse l'uomo che la stava tenendo stretta, chiedendole con voce accorata come stesse.

"Non è nulla – gli disse, secca – solo un incubo."

Giovanni da Casale allentò appena la presa attorno alle spalle della Tigre, comprendendo che la donna non stesse gradendo più di tanto le sue attenzioni.

Lo sguardo della Contessa era un po' sperso e anche nella luce fioca del momento che precede l'alba i riflessi verdi delle sue iridi riuscivano a mostrare tutta la sua inquietudine.

"Nel vostro incubo... Stavate chiamando me?" chiese l'uomo, che era stato svegliato proprio dall'insistente e biascicato ripetere della parola 'Giovanni'.

Caterina si accigliò, faticando a trovare un senso a quella domanda. Quando capì, scosse con forza la testa e cercò di rilassarsi di nuovo, anche se a fatica.

"No, non stavo chiamando te." rispose, senza una particolare intonazione: "Non era te che cercavo, no..."

L'uomo sospirò, senza fare altre domande. Solo in quel momento si era ricordato che anche l'ultimo marito della Leonessa si chiamava Giovanni e quindi, a ben pensarci, doveva essere lui, quello che la donna aveva invocato nel sonno.

Nel frattempo la Sforza stava cercando di dimenticare le orribili immagini che l'avevano strappata al riposo. Accoccolata contro Pirovano, gli passò lentamente una mano sull'ampio petto, sotto alle coperte, e poi lungo il fianco. Sentiva contro la propria pelle il suo corpo nudo e caldo, tanto forte quanto fresco. Quell'uomo aveva più o meno l'età che aveva Giacomo quando era stato ucciso e quel dettaglio, nella mente della Contessa, aveva un peso molto particolare.

Malgrado quel contatto e il profumo ancora presente del limone e delle erbe con cui Giovanni si era cosparso prima di incontrarla, Caterina avvertiva qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione. Si sentiva incompleta, quasi in torto per qualcosa.

Con un velo di tristezza, mentre sentiva il sonno tornare a tentarla, appoggiò con più sicurezza la guancia sulla sua spalla e gli sussurrò ancora una volta: "Non era te che cercavo..."

Anche Pirovano si riassopì e non si accorse nemmeno di quando la Contessa venne disturbata da qualche piccolo incubo, che, stavolta, aveva come protagonista il solito Ludovico Marcobelli.

Con il sole sorto da poco, la Tigre si svegliò e fece alzare anche Giovanni da Casale. Non voleva che li vedessero insieme. Anche se, probabilmente, qualcuno avrebbe malignato su di loro, era meglio non dare troppe prove gratuite di quello che avevano fatto.

Si rivestirono in fretta, ciascuno per conto proprio, e poi, appena prima di lasciare uscire il soldato, la Sforza gli disse, tenendolo fermo per un polso, come a sottolineare l'importanza delle sue raccomandazioni: "Faremo come se non fosse successo nulla."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now