Capitolo 367: Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigit.

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Il 22 luglio sotto un sole cocente, Cesare Borja lasciò Roma. La città, che si allontanava man mano diventando sempre più piccola pesava come un macigno alle sue spalle.

Il figlio del papa continuava a voltarsi, in sella al suo cavallo di rappresentanza, incapace di credere che dopo tanto tempo si stava di nuovo allontanando dalla sua famiglia.

L'Urbe, da quella distanza, pareva una minuscola gemma che riluceva al sole, priva di tutto il fango e di tutte le bassezze che la macchiavano. Stando così lontani, non si poteva nemmeno immaginare che dietro quell'agglomerato di tetti e di campanili si celasse un sottomondo fatto di inganni, cattiverie e ruberie.

Con un sospiro incerto, Cesare si strinse una mano sul petto, dove di solito portava il crocefisso da Cardinale, e si impose di non guardarsi più alle spalle.

Malgrado il malanimo che portava con sé, aveva capito che andare a Napoli era per lui una via di salvezza che forse suo padre gli aveva fornito in modo inconscio.

Una volta portata a termine la sua ambasceria, sarebbe tornato a casa e allora avrebbe potuto cominciare a pianificare la sua ascesa.

Ormai si era spinto troppo oltre e non poteva far altro che accelerare sempre di più. Sarebbe bastata una sola incertezza, e il suo volo – iniziato con una rincorsa tanto faticosa – sarebbe terminato improvvisamente, lasciandolo precipitare nel vuoto.


 Caterina tamburellava le dita sul palo per i cavalli con nervosismo. Da quando si era svegliata, non era riuscita a trovare nemmeno un momento di requie.

Aveva avuto dei pessimi incubi e nemmeno le attenzioni di suo marito erano bastate a sviare i suoi pensieri che continuavano a tornare sempre e ossessivamente alle stesse immagini.

Ad aggravare la situazione, da quando si era svegliata le era entrato nella mente un tarlo continuo che le voleva ricordare come sua madre e suo figlio Livio fossero morti più o meno un anno prima.

I loro volti freddi e l'odore della morte che era entrata di prepotenza nella rocca che lei considerava un nido sicuro, erano rientrati nel suo cuore e pesavano come un'incudine tra un battito e l'altro.

Il cortile d'addestramento era illuminato dal sole caldo di fine luglio e la lezione che si stava tenendo aveva incuriosito molto gli abitanti della rocca che, chi assiepato sotto gli archi, chi alla finestra, stavano osservando con attenzione ogni mossa dei tre allievi.

Il maestro d'armi, sotto l'esigente occhio della Contessa, aveva messo in fila Bernardino, Galeazzo e Ottaviano e stava facendo fare loro degli esercizi molto semplici, di riscaldamento.

Il primogenito della Tigre, quando aveva saputo della decisione della madre di fargli riprendere l'addestramento con le armi, non aveva avuto la forza di ribellarsi e si era così trovato immerso in un impegno che aveva creduto di poter schivare per il resto dei suoi giorni.

"Ottimo, messer Galeazzo." sorrise il maestro d'armi, correggendogli appena la posa e passando poi a Bernardino: "Se fate fatica a tenere alta una spada tanto grande – gli consigliò – provate con questa presa..."

Giovanni era poco distante dalla moglie, accanto al castellano e al Capitano Rossetti. Anche lui osservava, quasi con ansia, i tre figli di Caterina, sperando con tutto se stesso che Ottaviano si dimostrasse meno imbranato del previsto.

Dalla finestra, anche Bianca era allerta, con Sforzino al suo fianco che stava sulla punta dei piedi per potersi sporgere un po' e vedere meglio.

Solo Cesare non sembrava interessato all'esibizione dei fratelli, che aveva definito 'uno spettacolo da guitti'. Appena aveva saputo che gli allenamenti di Ottaviano sarebbero ripresi quel giorno, infatti, si era defilato ed era uscito dalla rocca, probabilmente diretto in Duomo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now