Capitolo 265: Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris

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Caterina stava aspettando impaziente nello studiolo del castellano. Era più agitata di quanto non sembrasse. Riusciva a tenere le mani ferme solo perchè le aveva appoggiate alla scrivania, ma sapeva che non appena ne avesse sollevata anche solo una, si sarebbe potuto quantificare il suo nervosismo dal tremore irrefrenabile delle sue dita.

Aveva chiesto che i figli venissero portati prima di tutto in una stanza per gli ospiti, lontani dagli altri prigionieri, che avrebbero potuto o farne simboli e cominciare un'improbabile ribellione, o incolparli per la loro condizione e sfogarsi su di loro fino a farli a pezzi, e poi aveva ordinato che venissero accompagnati uno per volta – Cesare per primo – al suo cospetto.

Quando la maniglia si abbassò, la Contessa non represse un fremito, ma Cesare, preso com'era dal proprio tormento interiore, non se ne accorse.

"Aspettate fuori." ordinò la donna a Mongradini, che si ritirò all'istante.

Cesare non accennava a muoversi dalla porta. Teneva il capo chino, mettendo in mostra la tonsura, le braccia erano inerti lungo il corpo e le spalle, curve, erano smosse di quando in quando da un mezzo singhiozzo.

Caterina restava ancorata alla sua sedia, incapace di aprir bocca. Temeva quello che avrebbe potuto fare, se si fosse alzata e si fosse avvicinata al suo secondogenito.

"Madre, perdonatemi." furono le prime parole che Cesare riuscì a dire.

"Perché dovrei?" chiese la Contessa, indugiando sugli abiti scuri del figlio, gli stessi, se ne rese conto subito, che aveva indosso il giorno in cui Giacomo era stato ucciso.

"Sono stato reso cieco dall'odio..." si spiegò Cesare: "Ho capito troppo tardi quello che stavo facendo... Mi sono lasciato convincere e ho peccato contro di voi e contro Dio." a quell'ultima affermazione, le sue mani dalle lunghe dita corsero al crocifisso che portava al collo.

"Hai capito troppo tardi che ti stavi rendendo complice di un omicidio?" chiese la Contessa, non riuscendo a mascherare troppo l'ira che attizzava il fuoco sotto la sua accusa: "E sì che tutti dicono che sei intelligente."

Il ragazzino sollevò finalmente lo sguardo e incrociò quello della madre. Nemmeno un pazzo avrebbe avuti dubbi sulla sincerità di quel pentimento.

Caterina si decise a lasciare la scrivania e si accostò al figlio. Cesare era sempre stato il più affettuoso dei suoi bambini, quando era piccolo, ma poi, alla morte del padre, aveva cominciato ad aggrapparsi sempre di più a Ottaviano, forse in cerca di una figura maschile di riferimento, e da allora la Contessa lo aveva sentito sempre più lontano.

Vedendo la madre avvicinarsi, il ragazzino ebbe l'istinto di ritirarsi, per difendersi, ma lo dominò alla perfezione, mantenendo i piedi ben piantati in terra.

Il suo movimento, per quanto appena accennato e quasi impercettibile, ferì ugualment Caterina, che gli si mise davanti in silenzio. Lo guardò a lungo e poi alzò una mano, come se volesse dargli uno schiaffo o anche un colpo più pesante.

Cesare tenne il mento alto, pronto a quell'assaggio della punizione che la sua carne avrebbe di certo subito per le sue colpe, ma quando il braccio calò su di lui, la velocità si rivelò decisamente inferiore a quella attesa e, una volta alla sua guancia, il pugno chiuso si aprì in una carezza. Una carezza ruvida, distaccata, a modo suo violenta, ma pur sempre una carezza.

Colto da una commozione profonda, il ragazzo gettò la prudenza alle ortiche e allargò le braccia, stringendo a sé la madre. Caterina si lasciò abbracciare, ma non ricambiò la stretta. Non era ancora pronta per quello.

Quando il figlio si allontanò da lei, in lacrime e paonazzo, la Contessa gli disse: "Spera che tuo cugino Raffaele riesca a provvedere a te. Da oggi mi disinteresserò dei tuoi studi e della tua vita. E ora vai a chiamare tuo fratello e fallo venire qui."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora