Cap.339:È sul campo di battaglia che si decide la vita e la morte delle nazioni

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Caterina e Giovanni restarono seduti al tavolo per poco tempo. Dopo appena un calice di vino, infatti, la Contessa era stata di nuovo avvicinata da alcuni invitati, che, guardinghi, avevano provato a parlare con lei, forse per sondare meglio il significato delle due danze che aveva condotto con l'ambasciatore di Firenze.

Stanca di quell'insistenza, la Tigre dopo un po' abbandonò il bicchiere vuoto sul tavolo e pregò il suo castellano di fare le sue veci fino al termine della serata.

Sentendosi addosso ancora gli sguardi di tutti, la Sforza fece un cenno al Medici ed entrambi, sgusciando in silenzio tra la gente che ancora rideva, beveva e ballava, uscirono dal salone e andarono verso le loro stanze.

Giovanni era stato così preso da Caterina per tutto il tempo da non essersi accorto dell'uscita di scena improvvisa di Ottaviano. La Contessa, invece, l'aveva notata, ma aveva cercato di convincersi che ci sarebbe stato il modo di appianare qualsiasi cosa, ma il giorno dopo.

Senza doversi dire nulla, tutti e due puntarono con sicurezza alla camera di Giovanni.

Un paio di soldati, che su ordine della Leonessa quella sera stavano perlustrando i corridoi per assicurarsi che nessun ospite si infilasse senza permesso nei meandri della rocca, li videro, ma il fiorentino e la milanese, pur accorgendosene, non fecero una piega e continuarono a camminare e ridere, mano nella mano, verso la stanza del fiorentino.

Appena furono nella camera dell'ambasciatore, prima ancora di accendere qualche candela o controllare il fuoco nel camino, i due cominciarono a baciarsi, dando finalmente sfogo a un bisogno che avevano avvertito per tutta la durata della festa.

Dopo qualche minuto, stringendo forte a sé Caterina, il Popolano avvertì una fitta alla caviglia e per un secondo la gamba gli cedette.

La donna lo sorresse come meglio poteva e poi gli accarezzò con lentezza la fronte: "Siediti." gli ordinò.

Giovanni, zoppicando un po', si andò a sedere sul letto, come gli era stato intimato di fare, e attese con pazienza che la Contessa accendesse qualche lume e rintuzzasse il fuoco nel camino.

Quella sera faceva molto freddo e fuori aveva ripreso a nevicare, come si poteva intravedere dal vetro appannato della finestra, eppure il Medici si sentiva continuamente avvampare di calore, come fosse stata piena estate.

Dopo aver sistemato quel che doveva, la Tigre tornò a concentrarsi su di lui. Lo fissava con uno sguardo strano, come se si stesse facendo delle domande a cui non poteva trovare alcuna risposta che fosse di suo gradimento.

Alla fine, gli si avvicinò con lentezza e gli prese una mano. Giovanni sollevò lo sguardo verso di lei e tentò di scrutare le sue iridi verdi per capire che cosa la stesse improvvisamente turbando a quel modo.

Al pensiero che potessero essere il suo cedimento e dunque l'improvvisa rinnovata consapevolezza della sua malattia ad aver portato la Sforza ad avere quell'espressione triste, il fiorentino si sentì tremendamente inadeguato. Così, mortificato, abbassò di nuovo gli occhi, senza però trovare la forza di far scivolare via la propria mano da quella di Caterina.

"Siamo stati due incoscienti." sussurrò la Tigre, mettendosi a sedere accanto a Giovanni e poi appoggiando la testa sulla sua spalla.

Il Popolano era d'accordo con lei. Se avesse potuto tornare indietro di qualche ora, avrebbe fatto esattamente le stesse cose che ora si rimproverava, tuttavia capiva bene quello che la Contessa intendeva dire.

Entrambi avevano molto da perdere, ma era chiaro che in quello specifico frangente fosse lei, quella che correva i rischi maggiori.

Le braccia di Caterina gli cinsero le spalle e poi lo accolsero in un abbraccio colmo di tenerezza, qualcosa che Giovanni non si sarebbe mai atteso da lei.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now