Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.

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Ottaviano tirò appena le redini del cavallo, fino a farlo fermare. La colonna di cavalieri che guidava era rimasta un po' indietro.

In realtà, fin dal primo giorno di pattuglia nelle terre del confine orientale della madre, il Riario aveva capito che quegli uomini non lo ascoltavano nemmeno. Erano soldati addestrati in modo ferreo, con una capacità di autodisciplina che invidiava loro moltissimo.

Lui si limitava a fare la bella statuina. Portava addosso lo stemma della sua famiglia – la biscia sforzesca affiancata alla rosa d'oro – e si metteva in testa alla colonna, quando pensava che il posto fosse abbastanza tranquillo.

Le pochissime volte in cui c'era stato da menar le mani, per rincorrere degli esploratori veneziani o mettere freno a qualche piccola rivolta, Ottaviano si era sempre messo nelle retrovie, senza sporcare mai una volta la sua spada di sangue.

Quando era stato al campo pisano con Giovanni, si era reso conto di essere capacissimo di uccidere in battaglia. Ma il panico e la sensazione di morte imminente che l'avevano preso mentre era in mezzo alla confusione dei soldati che uccidevano, gridavano e morivano... Quella non la voleva mai più provare in vita sua.

Il giovane annusò l'aria che sapeva di terra bagnata e di autunno. Per fortuna quella mattina non pioveva più. Si era stancato di passare le sue giornate con abiti fradici e le notti nella speranza che asciugassero.

L'unica nota positiva, in quella sua nuova condotta di vita, era che arrivava a sera tanto stanco da non avere altro pensiero in mente se non dormire e riprendersi in vista del giorno dopo.

Anche se i suoi soldati stavano spesso alla diaccio, o sotto le tende di un campo volante, Ottaviano riusciva quasi sempre a trovare una locanda che lo ospitasse, assicurandosi così un letto. Tuttavia, ogni volta che aveva intravisto o parlato con una donna – anche quando il mestiere della stessa era palese – non aveva avuto nè la voglia nè la forza di approfittarne.

Stringendo gli occhi, vedendo in lontananza il limitare del bosco che li separava dalla lingua di terra faentina, il giovane Riario abbozzò tra sè un sorriso, pensando che Giovanni sarebbe stato fiero di lui.

Anche se il suo miglioramento era da imputare agli impegni e alla paura di una punizione, in caso di non ottemperamento degli ordini, di certo il Medici sarebbe stato felice di vedere che il suo figliastro non pensava più solo alle donne e al rancore che covava nel cuore.

E ogni tanto pensava anche al figlio che aveva deciso di riconoscere e che sarebbe nato – o forse lo era già – a Imola. Aveva fatto quello che Giovanni gli aveva consigliato di fare e per una volta si sentiva orgoglioso di sè. O, almeno, non si vergognava, e già quello, per lui, era un grande traguardo.

Quella parentesi di strano isolamento gli stava rimettendo a posto dei pezzi di anima che credeva di aver perso. Se fosse riuscito a vivere a quel modo ancora per qualche mese, forse sarebbe riuscito a redimersi un minimo anche agli occhi di sua madre.


Caterina non riusciva a togliersi dalla testa quello che lei e il ragazzo del postribolo si erano detti nel segreto della sua camera da letto.

Era stata la prima volta in vita sua che le era capitato di sentirsi davvero capita da qualcuno.

Giacomo, quando aveva saputo quello che le era successo, l'aveva consolata a modo suo. Giovanni, dotato di maggior affinità intellettiva con lei, le aveva saputo dare anche un senso di sicurezza e protezione. Però solo quel ragazzo nato nei bassifondi era riuscito davvero a farle sentire di essere stata capita.

La giornata era abbastanza tranquilla e la Sforza la stava passando alla rocca. Il frastuono degli arruolamenti forzati del giorno prima non si era ancora placato e così aveva ritenuto più assennato sottrarsi ancora per qualche ora alle reclute.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now