Capitolo 280: Chi può fare i capitoli, può eziandio disfarli.

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Passando per Cesena e Bertinoro, Giacomaccio da Venezia era arrivato fino alle porte di Castelnuovo, forte dei suoi ottocento stradiotti e dei soldati riminesi che Pandolfo Malatesta aveva ben pensato di offrire come pegno di fedeltà a Venezia.

Nel giro di mezza giornata, senza farsi impensierire dal vento gelido e dalle nuvole perlacee che andavano infestando il cielo, il comandante veneziano allestì il campo, preparato all'assedio della città.

Quando i suoi furono pronti a dar battaglia, però, mandò una staffetta con segni di pace verso la porta principale e questa venne fatta entrare e portata ai tre forlivesi che tenevano la rocca.

Battista Veggiani fu il primo a leggere il dispaccio di Giacomaccio, mentre Tonone Russi e Francesco Numai controllavano che il messaggero fosse saldamente tra le mani delle guardie.

"Questo è un affronto che non possiamo accettare." disse l'uomo, porgendo poi la missiva anche agli altri due.

Numai lesse in fretta e poi scosse il capo, mormorando qualcosa in assenso alle parole di Veggiani.

Anche Russi passò in rassegna le frasi stentate del veneziano, e poi sbottò, guardando la staffetta con aria di sfida: "E perché mai dovremmo cedere la rocca e la città al senato di Venezia?"

Il messaggero, che avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto, non seppe rispondere e così i tre forlivesi ordinarono che venisse riportato fuori dalla città con un secco 'no' come risposta ai veneziani.

A quel primo diniego, Giacomaccio reagì con la calma di chi ha esperienza e chiese un incontro in terreno neutro con almeno uno dei tre uomini di fiducia della Tigre.

Veggiani, Russi e Numai dibatterono a lungo sul da farsi e alla fine fu Francesco a prendere in mano la situazione e accettò l'incontro.

Il forlivese e il veneziano restarono sul portone che dava verso la rocca, in modo da essere entrambi tutelati. Essendo tutti e due a tiro di fuoco nemico, era probabile, o almeno così speravano i due uomini, che nessuna delle due parti fosse tanto avventata da colpire.

"Dovete cedermi la città e la rocca, non per mio nome, ma per Venezia." concluse Giacomaccio, dopo essersi scontrato per almeno mezz'ora con la testardaggine di Numai.

Il forlivese, difronte a quello sfoggio di autorevolezza, perse le staffe e, battendo un piede in terra, appoggiò con fare minaccioso la mano sull'elsa dello spadone che portava al fianco ed esclamò, abbastanza forte da farsi sentire tanto dai suoi, quanto, soprattutto, dagli uomini di Venezia: "La rocca la teniamo e vogliamo tenerla per Caterina Riario Sforza, che ce l'ha affidata!"

Temendo una pronta reazione di Giacomaccio, Francesco Numai mosse un piede all'indietro, pronto a voltarsi di scatto e scappare di nuovo al sicuro oltre le mura.

Il veneziano, invece, incrinò le labbra e, dopo un lungo minuto di silenzio, sospirò, rispondendo, a voce altrettanto alta: "Mi consulterò coi miei ufficiali e deciderò che farne di voi."

Numai, tremando appena, mentre i suoi occhi si perdevano sul fiume di soldati che, accampati a poche centinaia di metri dal confine di Castelnuovo, portavano tanto lo stemma di Venezia quanto quello di Rimini, annuì e raggiunse il portone.

Una volta protetto a tergo dalle mura, corse nella rocca e disse, senza fiato, ma con concitazione, a Russi e Veggiani: "Correte a Forlì! Dite alla Contessa cosa sta succedendo! Chiedetele che dobbiamo fare!"

Senza perdere tempo a sindacare sul fatto che Numai avesse preso la decisione a nome di tutti, i due uomini si affrettarono immediatamente a raccattare dei mantelli pesanti, una borraccia e qualche soldo e poi si diressero alle stalle.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now