Capitolo 446: Campane a martello

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"Certo, mia signora – concordò lui, il viso impassibile e serio, come sempre difficile da decifrare del tutto – come se non fosse successo nulla."


"E dunque pensi sia davvero così?" chiese Ottaviano Manfredi, sorbendo in silenzio un po' del vino che gli era appena stato versato nel calice.

La locanda, sulla via Emilia, era affollata e la confusione che gli assordava le orecchie rendeva quasi impossibile pensare che quella zona fosse sotto imminente minaccia da parte tanto dei veneziani quanto dei fiorentini.

Il suo informatore, un ragazzo che conosceva fin da quando erano bambini, vuotò il suo boccale e annuì: "Ti dico che anche in città ci sono ancora delle famiglie che sarebbero felici di vedere tornare gli Ordelaffi, e pure nelle campagne qualcuno lo preferiva alla Tigre."

"Sapresti farmi un elenco preciso?" indagò Manfredi, appoggiando il gomito al tavolo e fissando occhi negli occhi il suo vecchio amico.

Questi ci pensò e poi, lasciando scivolare la mano in avanti, con un gesto apparentemente casuale, attese che Ottaviano gli mettesse sul palmo un paio di monete, prima di rispondere: "Direi proprio di sì. Mi serve solo qualche ora..."

"E allora fallo." gli ordinò Manfredi, riappoggiando il calice sul tavolo e facendo una piccola smorfia: "Questi parassiti vanno estirpati."

Antonio Maria Ordelaffi, lo si sapeva per certo, era al soldo veneziano e il Doge stesso lo voleva sfruttare come sostituto della Sforza, una volta rovesciato il governo della Contessa. Se a Forlì e nelle campagne esistevano ancora possibili sostenitori degli Ordelaffi, era necessario distruggerli, per evitare che la Tigre si trovasse sotto il fuoco incrociato di Antonio Maria oltre il confine e dei partigiani di lui all'interno dello Stato.

"E poi che ne farai?" chiese l'informatore, mettendo i soldi al sicuro.

"Questi non sono affari tuoi." tagliò corto Manfredi: "E ora muoviti, vai a fare quello che ti ho chiesto. Ci rivedremo in questa locanda domani."

Senza dirsi altro, il suo interlocutore lo salutò con un cenno del capo e lasciò la locanda. Ottaviano rimase ancora un po'. Pagò l'oste e poi osservò a lungo la varia umanità che si era radunata in quel piccolo locale ai bordi della strada.

Senza che ne capisse il motivo, di punto in bianco scoppiò una piccola rissa. Memore dei suoi anni raminghi passati tra una zuffa e l'altra, Manfredi sentì il richiamo dello scontro, ma, pensando a quello che lo aspettava nei giorni a venire, fece finta di non vedere la rissa, si alzò dal suo tavolo e voltò le spalle alla confusione, tornando in strada a recuperare il suo cavallo, per tornare dai suoi uomini.


Cesare Riario aveva preferito incontrare sua madre subito, per riferirle quello che era successo il giorno prima.

Caterina non lo fece aspettare e lo ricevette subito, nella tranquillità dello studiolo del castellano. Il ragazzo le raccontò della reazione di Lorenzo Giustiniani, podestà di Ravenna, alle sue parole e la Tigre – come il Riario aveva immaginato – non gli lasciò capire se fosse o meno soddisfatta dell'esito di quella piccola spedizione.

"Hai fatto quello che ti avevo chiesto." gli disse solo, prima di lasciarlo andare: "Non mi hai fatto pentire di aver scelto te come mio inviato."

Gli occhi castani di Cesare incrociarono per un lungo istante quelli della madre. Per una frazione di secondo la Sforza rivide il bambino affettuoso e docile che quel suo secondo figlio era stato da piccolo. Tuttavia, in un battito di ciglia, quello che aveva davanti tornò subito a essere il distaccato e rancoroso prete che ormai da anni viveva sotto il suo stesso tetto senza avere con lei quasi più nulla a che fare.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now