Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores

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Tuttavia, l'agitazione che le aveva messo addosso il sapere che quelle parole erano state lette da altri, nel giorno del funerale di Giovanni, le impedì di stare seduta a lungo. Finì per sostare in piedi, nel mezzo dello studiolo, immobile, come una lettrice intenta alla declamazione di un inno sacro.

"Ad nos senectae praesidium gravis, proh sortem iniquam, et Pieridum chori, condigna sperabamus in te praemia tot studiis reposta." cominciò a leggere la Sforza, con la voce ridotta a un filo.

Di per sè, quella nenia non l'avrebbe smossa più di tanto, ma sapere che il bizantino l'aveva ideata apposta per commemorare Giovanni, la rendeva straziante.

Proseguì per un altro paio di versi, finché la voce non le si spense mentre leggeva: "Horator exemplumque laudum, ante diem mihi, Iane, raptus."

Proseguì senza più riuscire a parlare, qualche lacrima che scendeva lenta e rovente lungo la guancia.

La parte più razionale di lei si trovava a pensare che Giovanni avrebbe di certo apprezzato quel componimento in latino. Lo stile era elegante e anche le citazioni indirette fatte all'opera di Catullo lo avrebbero trovato entusiasta.

La parte della sua mente meno incline al ragionamento freddo, però, la resero irrequieta. In quei giorni aveva cercato di pensare e ricordare il meno possibile. I suoi incubi la torturavano sempre, e ormai vedeva molto spesso anche il corpo straziato di Giacomo e quello esangue di Giovanni, ma quando tornava il mattino, riusciva a tenere in un angolo il suo dolore.

Arrivata all'ultimo verso, la Tigre si rese conto di essere preda di un pianto silenzioso, ma violento.

La commozione iniziale aveva lasciato il passo a una disperazione che non sfogava dal giorno stesso in cui Giovanni era morto. Davanti ai suoi occhi non vedeva più lo studiolo del castellano immerso nella luce incerta delle candele, nè le parole vergate dalla mano sicura di Marulli.

Rivedeva l'uomo che aveva amato e che l'aveva amata tanto da arrivare a rinnegare la propria famiglia, e lo sentiva di nuovo parlare e ridere, con la leggerezza che solo lui sapeva tirare fuori anche nei momenti peggiori.

Ricordò delle ultime ore passate insieme, di come gli avesse letto le poesie che amava, fino a vederlo piombare in uno stato comatoso da cui non si era più ripreso. Da lì ripensò a prima, a quando era tornato a Forlì dal fronte, al tracollo che il suo corpo aveva subito nel fare la vita del soldato per pochi giorni, e al suo volersi allontanare da lei solo per non essere un peso.

Come se stesse rivivendo la sua vita a ritroso, ricordò degli ultimi stralci di felicità che avevano condiviso, prima che lui partisse per Firenze e poi per Pisa, la passione che non aveva lasciato loro tempo per pensare, e, ancora prima, le notti passate assieme nella tranquillità della loro stanza o nel segreto della Casina, in mezzo al bosco.

Si ricordò di quanto all'inizio lei fosse stata ritrosa, ancora troppo scottata dalla morte di Giacomo per riuscire davvero ad accettare un sentimento come quello che Giovanni le aveva scatenato. E poi la resa, il matrimonio, la nascita del loro unico figlio...

Senza rendersene conto, la Tigre stava stringendo nel pugno di fogli che Michele le aveva donato e rischiava di rovinarli.

Rilassò le dita, per quanto le riuscì, e si accorse che il dolore si era trasformato – come spesso le capitava – in rabbia. L'ira cieca dettata dalla sensazione di essere stata privata ingiustamente dell'equilibrio e della sicurezza che Giovanni le stava dando, e dalla consapevolezza che mai più sarebbe riuscita a sentirsi bene come quando lui era al suo fianco.

La collera era tanta e così incontenibile, che Caterina tentò istintivamente di sfogarla gettando in terra la prima cosa che le capitò a tiro – una pietra usata da Cesare Feo come fermacarte – ma capì subito che non sarebbe bastato per placarla.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Opowieści tętniące życiem. Odkryj je teraz