Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.

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Solo qualche anno prima, non ci avrebbe pensato minimamente e si sarebbe messa in prima fila, pronta a fronteggiare anche la folla inferocita. Adesso, però, sentiva di dover pensare anche alla propria, di incolumità. Prima di permettersi simili avventatezze, doveva pensare a quelli che stava proteggendo. Se le fosse successo qualcosa per un motivo tanto sciocco, lasciando solo Giovannino e gli altri, non se lo sarebbe mai perdonato.

Era così tranquillamente seduta in una delle poltrone della sala delle letture. Aveva sulle ginocchia il suo figlio più piccolo e Bianca era sul divanetto dinnanzi a lei, immersa nella lettura di un pesante tomo che parlava di storia romana.

La Leonessa passò con lentezza la punta del pollice sull'arcata sopraccigliare del figlio, che la fissava in silenzio. A volte trovava quasi imbarazzante l'intensità con cui Giovannino la guardava.

Sembrava sempre che stesse cercando di capire qualcosa di difficile, che gli sfuggiva ogni volta.

La forma un po' allungata dei suoi occhi le ricordava sempre di più quella di Giovanni. Era così particolare che, pensava la Sforza, forse era propria anche di altri membri della famiglia del marito.

Il piccolo alzò un bracciotto per toccare quello della madre e di reazione Caterina sorrise. Le piaceva quel bambino. Non solo perché era il figlio di Giovanni. C'era qualcosa, in lui, che glielo faceva sentire vicino, simile.

Se lo avvicinò un po' di più e gli diede un bacio sulla fronte. I suoi capelli, sempre più ribelli, erano ricci come quelli del padre, e le solleticarono le labbra, facendo allargare il sorriso che già aveva in viso.

Portandoselo al petto, per abbracciarlo – senza trovare la minima ritrosia, a dispetto di quanto sostenevano le balie, che lo dipingevano come un bambino dispettoso e riottoso a ogni forma di tenerezza – la Contessa allungò lo sguardo verso Bianca.

Era assorta nella lettura, una mano a tenere aperto il libro sulle gambe, l'altra a sfiorarsi le labbra un po' aperte, e gli occhi blu scuri che correvano sulle parole stampate senza lasciarsene scappare una.

Forse quello non era il genere di libro che ci si sarebbe attesi di vedere tra i preferiti di una giovane donna della sua età e della sua estrazione, ma Caterina ben si guardava dal riprenderla su quel genere di scelte. Era felice, anzi, di vederla tanto eclettica negli interessi.

La osservò meglio, continuando a cullare Giovannino, che si beava della sua vicinanza come se non potesse farne a meno, e ammise ancora una volta di più con se stessa che sua figlia era veramente molto bella.

Negli ultimi anni era sbocciata e si era fatta ancora più simile a sua nonna Lucrezia. Nei suoi lineamenti, infatti, la Tigre riconosceva più la madre che non se stessa. Le forme del suo viso, e anche del suo corpo, avevano quel tocco etereo e impalpabile che si mescolava solo in parte con la bellezza terrena, esattamente come era stato per Lucrezia.

L'avvenenza più massiccia e palese degli Sforza si rivedeva solo in alcuni atteggiamenti e in alcune espressioni del viso, ma per il resto era nipote di sua nonna, più che figlia di sua madre.

Caterina, con un sospiro pensieroso, il sorriso che lentamente se ne andava, affondò il viso contro i capelli profumati di suo figlio, stringendolo un po' di più, mentre pensava tra sè che almeno sua figlia, per quanto le era stato possibile, l'aveva protetta.

Non da tutte le brutture della vita, nè da lutti o dai dolori, ma se non altro le aveva impedito, fino a quel giorno, di dover sottostare a un uomo impostole con la forza, come invece era capitato a lei.

Avrebbe compiuto a fine mese diciassette anni e ancora non aveva dovuto passare una sola notte in compagnia di un marito indesiderato. Alla sua età, Caterina aveva già avuto due figli ed era in attesa del terzo parto.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Onde histórias criam vida. Descubra agora