Capitolo 430: Sit tibi terra levis

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Bianca annuì e partì di corsa verso il laboratorio, il bordo della vestaglia tenuto un po' sollevato per non inciampare.

"Dove state andando?" chiese Cesare Feo, sconvolto nel vedere la sua signora tornare in camera, spogliarsi in lampo davanti a lui, indossare un abito che di norma metteva per la caccia e infilarsi gli stivali di cuoio.

"A San Pietro." soffiò la donna, guardando prima il castellano e poi, solo per un istante, Ludovico che, confuso, la fissava dal letto.

"Ma..." balbettò il Feo: "Ma... Oggi dovete incontrare Sanseverino e..."

"A quello penserò dopo! All'inferno Sanseverino e tutti quanti!" inveì la Sforza, facendo seguire un paio di imprecazioni tanto volgari che il castellano si zittì una volta per tutte.

Con il sangue che pompava prepotente nelle vene, Caterina percorse il corridoio tanto in fretta che quando arrivò alle scale per poco non cadde al primo gradino. Come una saetta giunse fino alle stalle e scelse il cavallo più veloce della sua scuderia – uno di quelli che erano stati rubati non molto tempo prima a Manfrone – e disse al garzone di stalla che stava lì vicino di prepararglielo.

Bianca stava già arrivando con le bottigliette che la madre le aveva chiesto e così, dopo essersele messe nel tascone dell'abito, la Tigre abbaiò al garzone: "Allora, volete muovervi?!"

Questi, spaventato dal tono aggressivo della sua signora, si fece addirittura cadere le redini di mano e così Caterina decise che i finimenti non erano poi così fondamentali, per quel viaggio: fece scansare di forza il ragazzo e montò sul cavallo a pelo.

Bianca non provò nemmeno a dirle che un tragitto così lungo, in quelle condizioni, era un azzardo, tanto era certa che non l'avrebbe ascoltata o, tutt'al più, le avrebbe gridato dietro qualche impropero.

Battendo coi tacchi sui fianchi della bestia, la Leonessa lo fece uscire dalla stalla e attraversò i due cortili, gridando di lasciarle libero il passaggio.

Quando uscì dalla rocca, era ancora tanto presto che in pochi la videro, ma tra questi, proprio vicino alla statua del Barone Feo, c'era anche Andrea Bernardi, che si era messo in piedi di buon'ora per andare a fare qualche compera al mercato.

Attonito, riconoscendola subito, la fissò mentre si allontanava e si chiese dove mai stesse correndo, con addosso quella velocità da diavolo, i capelli quasi del tutto bianchi sciolti al vento e le mani aggrappate al crine del cavallo.


"Io non saprei..." stava dicendo uno dei medici che erano stati chiamati da Gherardo Gambacorti, che dopo l'arrivo del drappello fiorentino si era fatto molto più solerte nel tentare di curare il Popolano: "Spostarlo adesso equivarrebbe a ucciderlo. A questo punto, aspetterei e gli eviterei questa inutile sofferenza."

"Ma il nostro padrone ci ha detto..." fece uno degli uomini mandati da Lorenzo.

"Il nostro padrone ci ha detto di portarglielo vivo, se possibile. Ma credo che sarebbe d'accordo con lui – fece un altro, indicando il dottore – se sapesse in che stato è il povero messer Giovannino."

"Io direi che riprovare a fargli qualche salasso sarebbe altrettanto dannoso, oltre che inutile: dall'ultimo non ha avuto alcun vantaggio..." si mise a soppesare a quel punto una delle suore delle terme che, in realtà, pareva quasi capirne di più dei medici: "Meglio tenerlo tranquillo e dargli supporto spirituale."

"Rifiuta il prete." fece notare Gambacorti che, mordendosi il pollice, pareva il più in apprensione tra i presenti.

"Perché vuole la moglie..." scosse il capo la suora: "Ma di questo passo, non penso che la rivedrà."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora