Capitolo 411: Fame da lupi

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Vederla invece dargli spesso ragione e fare ogni tanto un cenno d'assenso con il capo, stava dando al giovane Riario una grande sicurezza di sé.

Oltre a lui, erano presenti il maestro d'armi e Bernardino. Se il primo seguiva con attenzione ogni mossa, proponendo miglioramenti per la spada del fiorentino e uno scudo più maneggevole, il secondo aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo fisso in terra.

Stremato per la sessione di allenamento che l'aveva fatto sudare all'inverosimile, Giovanni a un certo punto sollevò il braccio armato ed esclamò: "Basta, per pietà! Per oggi sono a posto!"

La Leonessa non ebbe nulla da ridire, felice che fosse stato il marito a chiedere una tregua. Infatti, l'avrebbe domandata lei stessa, ma temeva di essere fraintesa. Da quando aveva deciso di partire, il Popolano era diventato molto insofferente verso ogni palese o velato riferimento al suo stato di salute.

"Ottimo lavoro, messer Medici." fece il maestro d'armi, aiutandolo a togliersi i legacci di cuoio che gli assicuravano alla mano l'elsa della spada.

"Siete veramente bravo." confermò Galeazzo, prendendogli lo scudo: "Se vi foste dedicato alle armi, sareste stato un ottimo comandante."

Giovanni fece un sorrisetto divertito e guardò Caterina che, con metodo e faccia seria, si stava togliendo le protezioni dalla testa e dalle braccia: "Che dici? Lo sarei stato?"

La donna, troppo immersa nella sue preoccupazioni, sentì a stento la domanda e rispose in modo molto evasivo: "Se ti fosse dedicato a quello..." borbottò, andando poi verso la sala della armi per deporre quello che aveva usato, seguita quasi subito dal maestro e da Galeazzo.

Rimasto in cortile da solo, il Medici fece un paio di profondi respiri e guardò verso il cielo azzurro, accorgendosi solo in un secondo momento che Bernardino era ancora lì, il viso imbronciato e lo sguardo basso.

Gli si avvicinò e, posandogli una mano sulla spalla, gli chiese: "Allora, tu che ne dici? Me la cavo bene come sostiene tuo fratello?"

A quelle parole, il bambino sollevò gli occhi castani e lo fissò per un lungo istante. Al fiorentino parve di leggervi rabbia, più che qualunque altra cosa.

Prima che riuscisse a capirne il motivo, Bernardino gli spostò la mano di malagrazia e scappò via, correndo veloce come il vento, diretto alla scale.

Quando Caterina uscì dalla sala delle armi, trovò il marito ancora attonito che fissava verso il porticato.

"Che c'è?" gli chiese, vedendolo con la fronte aggrottata e le labbra strette, come quando qualcosa lo impensieriva.

"Niente..." fece lui, sforzandosi di sorridere: "Avanti, andiamo a mettere qualcosa sotto i denti. Sto morendo di fame."


Ottaviano Riario non osava uscire dal suo padiglione. Sapeva che se si fosse fatto vedere, sarebbe si nuovo stato oggetto di scherzi e sberleffi e non l'avrebbe sopportato più.

Aveva capito benissimo che nessuno osava andarci giù troppo pesante solo perché i soldati della Tigre erano ritenuti da tutti indispensabili, ma anche i dileggi verbali o i lazzi da guitto gli davano fastidio.

Non sopportava i bagni da campo, detestava il cibo scarno e spesso stantio che gli veniva dato, odiava tenere addosso abiti lerci per giorni e, cosa ancor più grave, si sentiva spaurito e perso.

Non riusciva a ritrovare in sé nemmeno la forza – per quanto negativa – che fin quando era stato a Forlì l'aveva aiutato a superare l'ansia e la paura attraverso la violenza e l'aggressività. Quei due difetti in guerra sarebbero diventati due pregi, e invece, fuori luogo come sempre, il Riario si trovava privo di entrambi, senza avere nemmeno la consolazione di un animo più tranquillo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now